“Una volta era un Paese”.

“Una volta era un Paese”.
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Incontro con Stefano Tallia e la Bosnia per capire l’Italia di oggi.

Se voi però avete diritto di dividere il mondo in Italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri miei stranieri”. Don Lorenzo Milani, “L’obbedienza non è più una virtù”.

In questi giorni, in cui l’Italia sta vivendo un “sonno della ragione” che sembra generare mostri, come nel celebre quadro di Goya, ma dai contorni non ancora ben definiti, vale la pena segnalare la seconda edizione di un piccolo, grande libro, scritto da Stefano Tallia, giornalista e scrittore già noto al pubblico, che abbiamo incontrato nel Centro Culturale italo–arabo Dar Al Hikma di via Fiochetto 15, a Torino, gestito dallo scrittore Younis Tawfik. Riguarda uno dei conflitti più sanguinosi del secolo scorso che, come lui stesso fa notare nel presentare l’opera, è stato quasi del tutto dimenticato dal resto dell’Europa, invece ci interessa, e molto, per le inquietanti similitudini che presenta con la situazione attuale, con i nazionalismi che stanno crescendo un po’ dappertutto. La frase di Don Milani è l’incipit di uno dei capitoli più interessanti, quello in cui si parla di una scuola, “il luogo che meglio riassume e racconta le tensioni sociali”, come scrive lui stesso; una scuola di Stolac, in Bosnia.

Laurea in Storia, Stefano Tallia ha iniziato a scrivere su questo argomento perché, appunto, “non se ne capivano bene le ragioni, si rimaneva un po’ disorientati da un conflitto in cui il vicino di casa improvvisamente diventava un nemico, in quella che è sempre stata una terra di convivenza. Questa convivenza pacifica ad un certo punto salta perché si diffonde fra i diversi popoli la volontà di affermare la propria identità”.

La Jugoslavia era leader dei Paesi non allineati, non era la Germania Est di Honecker, né la Romania di Ceausescu, noi non conoscevamo tanto bene un Paese che pure è alle porte di casa nostra. L’inizio di questo inferno, scrive Tallia nel libro, ha una data precisa: il 28 giugno 1989, quando a Kosovo Polje, nel luogo in cui i Serbi furono duramente sconfitti dai Turchi nel 1389, Slobodan Milosevic tenne un infuocato discorso in cui sostenne che “è serba la terra sulla quale sia morto anche un solo soldato serbo”.

L’Europa si è poi disinteressata dei Balcani e delle aspirazioni di questi popoli, e questo ha significato per esempio che il tasso di disoccupazione giovanile è tra i più alti in Europa. Terreno di coltura naturale per qualsiasi tipo di nazionalismo, come purtroppo stiamo osservando anche da noi: facile individuare nell’”altro” il proprio nemico, quando non si ha di che mangiare. Oggi in Bosnia – prosegue Tallia – si assiste ad un rafforzamento dell’identità musulmana che vede in Erdogan il proprio riferimento. Fino a poco tempo fa non si vedevano donne velate o addirittura con il burqa, oggi questo fa parte normale del paesaggio di Sarajevo. Sta succedendo qualcosa, nel gruppo musulmano della Bosnia Erzegovina, ed è qualcosa a cui l’Europa secondo me dovrebbe porre maggior attenzione, perché qualcosa di simile sta succedendo per esempio anche in Albania”.

Mostar

L’occasione per scrivere le impressioni su questa tragedia, gli venne data nel 2011 dall’associazione Ipsia-Acli (“che diventerà per me negli anni successivi una sorta di seconda famiglia” scrive lui stesso), con il progetto “Terre e libertà”, che porta i giovani ad occupare il proprio periodo di vacanza con un’esperienza di volontariato, spesso in Paesi che stanno vivendo o hanno vissuto un conflitto. Tale esperienza era incominciata per lui a Mostar, una delle città simbolo di quella guerra, in cui avevano perso la vita tre suoi colleghi della RAI.

La prima edizione del libro porta la data del 2013. Il giornalista e scrittore Luca Rastello, mancato nel 2015, ne aveva firmato la prefazione, scrivendo tra l’altro: “Interrogare, piuttosto che sentenziare, è un’operazione che spesso e bene si compie facendo uso delle gambe, mettendosi davvero per strada anziché compulsando, seduti, una tastiera alla ricerca del link illuminante”. E questo è proprio ciò che ha fatto Stefano: attraverso la collaborazione tra volontari, è possibile cogliere le parole di chi ha vissuto quelle vicende, ma anche i silenzi, il “non detto”, spiega, che spesso conta più delle parole: “Difficile oggi essere portatori di parole di pace in contesti di questo genere. La cooperazione per questi progetti avviene con organizzazioni locali molto attente a curare la convivenza tra individui di tutti gli ordini religiosi. In una città come Mostar si lavora con quelle associazioni che tengono insieme i bambini cattolici e quelli musulmani, perché questo è il seme che bisogna piantare nella terra per sperare che anche  una stagione difficile dia un giorno buoni frutti. E questo è lo spirito con cui ho scritto questo libro”.

Il lavoro iniziò con i post su Facebook, che Stefano aveva titolato “Francobolli da Mostar”, e che vengono citati ripetutamente. Stefano Tallia ha deciso di pubblicare di nuovo questo libro,  perché può aiutare a capire ciò che succede a noi, può metterci in guardia contro i rischi di un nazionalismo che in questo periodo si sta facendo strada anche nel nostro Paese. “Se qualcuno andasse a rileggere i discorsi di Milosevic di allora, troverebbe una straordinaria assonanza con alcuni di quelli che si sentono oggi, qui da noi. Tutte le volte che qualcuno ha detto “Prima noi!”, a decidere chi dovesse passare per primo, è sempre stata la guerra”.

Tallia cerca di spiegare quel popolo attraverso le parole di parecchi personaggi, perché, come lui stesso ha ricordato, “La Storia si può raccontare e comprendere anche attraverso le storie delle persone che ne sono state travolte”. La passione di Stefano Tallia è lo sport, in particolare il calcio, ed ecco quindi le parole dell’amico Emir Sedic, bosniaco di Bosanka Krupa, campione mancato a causa della guerra. L’esplosione del conflitto proprio alla vigilia del suo debutto in serie A lo porterà invece a combattere; gli brillano gli occhi quando si parla di Blaž Slišković, fuoriclasse dell’Hajduk Spalato e bosniaco come lui. Emir ha fondato “Football no limits”, scuola di calcio itinerante in diverse città della Bosnia e affiliata all’Ipsia-Acli, che coinvolge un grande numero di persone allo scopo, come scritto sul sito dell’associazione, di “incentivare la pratica sportiva, promuovendo l’inclusione sociale, migliorando l’integrazione tra le comunità, creando maggiore consapevolezza della funzione che lo sport può avere nella costruzione di un futuro migliore”.

Poi c’è Elvir, conosciuto davanti al museo di Sarajevo, che parla bene l’italiano perché riuscì a fuggire in Italia e che conserva con orgoglio alcune carte italiane. Fatima invece  lavora in una radio a Mostar e  coordina l’associazione “Volontari per Mostar”: “Siamo un popolo e una terra con migliaia di anni di storia alle spalle, e non vogliamo essere conosciuti dal mondo per due anni di barbarie. Le nostre radici sono molto più profonde del coltello che ha cercato di tagliarle”. Ma nel libro ci sono anche le parole e il “non detto” di Maja, bambina, allora, in fuga dalla Bosnia, accanto a quelle di Silvia, tra i primi volontari nei campi profughi durante la guerra.

Lo stesso Tallia cita tra le pagine del libro un detto locale, parafrasandolo: “I Balcani iniziano dove finisce la logica”.

Tamara Garčević

C’è, infine, la testimonianza di Tamara Garčević, autrice dei disegni che accompagnano i capitoli di questo libro;  dalla Bosnia è venuta a vivere in Italia, a Piobesi d’Alba, mentre il padre è rimasto a combattere nell’assedio di Sarajevo. Tamara è grafica, si è specializzata in Belgio ed oggi lavora a Torino come illustratrice.

Possiamo concludere con le parole di Paolo Rumiz, che Tallia riporta nelle sue pagine: “Accusare il ‘forestiero’ impedisce di pensare ai nemici interni e assolve la comunità ‘autoctona’ dall’obbligo morale di interrogarsi sui propri errori. È così da secoli. La dissoluzione della Jugoslavia insegna. Dopo aver saccheggiato il Paese, la dirigenza post-comunista, per non pagare il conto, ha scagliato Serbi contro Croati e quel che segue. Ammazzatevi tra voi, pezzi di imbecilli. Che c’entra la Jugoslavia? C’entra eccome. È stata il primo segno di una malattia che oggi sta contagiando l’Unione Europea e si chiama balcanizzazione. Che significa: trasferimento sul piano etnico di una tensione politica e sociale che altrimenti spazzerebbe via i responsabili della crisi, i ladri e i loro cortigiani”.

Sono parole forti, che devono farci riflettere. Prima che sia troppo tardi.

Stefano Tallia, con illustrazioni di Tamara Garčević, Una volta era un paese. Come bambini nell’ex Jugoslavia, EFFEDI Edizioni, 2018

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