Oggi siamo in compagnia di una persona che non è straniera, ma che conosce bene tutte le difficoltà che incontrano i migranti che vivono sul nostro territorio, e non solo loro. Livia Chalp è una donna che si è messa in gioco, dando una mano a chi ha una vita difficile.
Pinerolese, proviene da una famiglia originaria di Oulx, con antenati della provincia di Mantova. Colonna dell’associazione “Likaa – Incontro”, che si prende cura delle relazioni tra Italiani e Marocchini, fa parte anche dell’Acat, Associazione dei Club Alcologici Territoriali. Anche lei vive la commistione fra culture diverse e le contraddizioni del carattere coriaceo dei piemontesi. Si è diplomata al liceo linguistico all’Istituto Maria Immacolata, che allora era un indirizzo sperimentale linguistico/scientifico, e che aveva anche diverse camere per le ragazze che si fermavano tutta la settimana, venendo da fuori città. Attualmente l’Istituto ha anche una scuola elementare, oltre a diversi indirizzi di studio. La simpatia di Livia le era valsa l’amicizia di un insegnante cubano, con cui sono rimasti in contatto, e che ogni tanto torna a trovarla a Pinerolo.
Solo oggi può apprezzare i valori che ha appreso in quella scuola, gestita allora dalle Suore Giuseppine. Terminato il corso di studi, in cui ha imparato inglese, tedesco e francese, non era riuscita a trovare lavoro nel settore linguistico. In seguito ha anche studiato spagnolo, al Buniva, per ben nove anni (tra i compagni di corso c’era Patrizio Righero), e infine ha incominciato ad imparare un po’ di arabo, quando ha iniziato a collaborare con l’associazione Incontro. “L’arabo è artistico, si scrive come un disegno, e il disegno è sempre stata la mia passione. Infatti mi sarebbe piaciuto frequentare il liceo artistico, ma l’idea non piaceva ai miei genitori: a quel tempo non esisteva a Pinerolo, e quello di Torino godeva di una cattiva fama, per me che venivo da una scuola gestita dalle suore”.
Dopo un breve periodo di lavoro nell’agenzia di pratiche auto del padre, Livia frequenta un corso, finanziato dalla Regione Piemonte, chiamato “Colore e arredo urbano”, tramite il quale i ragazzi facevano pratica nelle botteghe artigiane. Lei capitò in quella di Felice Audino, in via Verdi, a Torino, un pittore e restauratore che lavorava con diversi materiali, dalle tele agli stucchi alle cornici, ai dipinti murali, ed ebbe così modo di imparare molto. Anche perché la lasciava spesso in bottega da sola, cosa che le insegnò anche a districarsi tra i diversi problemi di gestione dell’attività. Un’esperienza molto utile e istruttiva, che lei ricorda con gratitudine.
Livia ha avuto i primi contatti con i problemi relativi all’immigrazione, perché ad un certo punto ha sposato un ragazzo proveniente dal Marocco.
Come vi siete incontrati?
“Alcuni amici avevano aperto un ristorante/pizzeria, assumendo per la cucina due ragazzi marocchini. Il locale era in uno stato pietoso, e io aiutai questi amici a ristrutturarlo: ho fatto anche il muratore (ride)! Avevo realizzato un bellissimo dipinto murale sull’intera parete del forno, una spiaggia caraibica in stile naif, e diversi altri dipinti da appendere alle pareti. Inoltre ero con loro praticamente tutti i giorni, per dare una mano, ed è nata l’amicizia con uno dei due cuochi, grazie anche ad alcune gite di gruppo al mare”.
Il primo viaggio in Marocco?
“Eravamo già sposati, e come marito e moglie facemmo un solo viaggio. Ogni tanto lui sentiva il richiamo della famiglia di origine e tornava in Marocco, senza badare alle spese, a volte perfino senza avvertirmi, cosa che, oltre alle forti differenze caratteriali, ha contribuito ad allontanarci. Si pensa che gli africani siano tutti aperti e solari, ma non è così, lui aveva un animo tormentato ed era difficile, non andava tanto d’accordo neppure con i suoi amici”.
Cosa possiamo dire del razzismo e delle discriminazioni verso gli stranieri?
“Dipende dal carattere degli interessati, come dicevo prima. Fondamentale è evitare di fare di tutt’erba un fascio, di pensare che tutti coloro che vengono da un Paese siano fatti allo stesso modo. La cosa importante è capire se una persona vale o non vale nulla. Certo, ci sono elementi della cultura di un luogo che sono comuni a tutti, ma non è sempre così determinante. Ad esempio la religione: i musulmani sono in genere più osservanti di noi, e in certi casi sono da apprezzare. Evito il radicalismo cattolico, così come è da evitare l’integralismo musulmano. Sono per principio contraria ad ogni tipo di radicalizzazione, sia religiosa, sia politica”.
Tuo marito aveva trovato lavoro facilmente?
“Finché era nel ristorante è andato tutto bene, poi era riuscito ad entrare in fabbrica, con contratto a termine, ma al momento di confermarlo a tempo indeterminato, lo hanno lasciato a casa. È poi riuscito, grazie anche ad alcuni conoscenti, ad entrare in una grande azienda, di cui è tuttora dipendente. È nata una figlia, che oggi ha vent’anni, è cuoca diplomata, e soffre di tutti i problemi di cui in questo periodo soffre l’intero settore della ristorazione. Ha anche una bellissima voce e le piace mettersi in gioco come cantante. Ho preferito chiudere proprio nel suo interesse, perché volevo che vivesse serena, senza tensioni in casa. Così è stato, fino all’età in cui una famiglia monogenitoriale li fa sentire “diversi” dai loro coetanei. Il mio ex marito non si è dimostrato affidabile: quando seppe che suo padre era molto malato, lui è partito senza avvisare nemmeno l’azienda per cui lavorava. Il suo datore di lavoro gli ha conservato il posto, ma gli ha cambiato sede di lavoro. Comunque, io non mi fidavo più”.
Dove abita, la sua famiglia, in Marocco?
“A Salé, sulla costa atlantica. Da lì siamo partiti per visitare Tangeri, Agadir, Asilah, più a nord, poi Marrakesh, Safi, Casablanca e Rabat. Giravamo parecchio, anche perché mia suocera era insopportabile (ride)! Sono poi tornata in Marocco, per andare a trovare gli amici che avevo conosciuto, e anche perché avevo scoperto un Paese splendido, e avevo una gran voglia di osservarlo nei particolari. Ho ammirato la bellissima Chefchaouen, la ‘Città Blu’, con le case dipinte di un blu talmente intenso che a volte ti fa perfino male agli occhi. Ho visitato Tétouan, Fnideq e Ceuta. Qui si potrebbe aprire un discorso molto ampio e scomodo: come sappiamo, Ceuta è un territorio spagnolo sullo stretto, praticamente di fronte a Gibilterra. Ciò che ho visto mi ha fatto capire cosa significhi per una persona non avere prospettive, abitare in un Paese meraviglioso ma che diventa una gabbia perché non sai di cosa vivere. A Ceuta accadono cose che la gente dovrebbe sapere, per riuscire a capire i motivi che spingono le persone a lasciare la propria casa. Non lo fanno per avventura, né per sfidare la sorte: lo fanno per cercare la possibilità di una vita diversa, più dignitosa, e penso che questo non sia da demonizzare, ma da rispettare. Non stiamo parlando di diritti, ma di possibilità: credo sia giusto che ognuno ne abbia, nella vita”.
Adesso che lavoro fai?
“In parte ho ripreso il lavoro di restauro e pittura. Qualche anno fa un’amica mi ha proposto un lavoro di assistenza ad una signora anziana, e quindi mi occupo anche di questo, in orari part time. Alterno l’attività di assistenza con il restauro, che conto di far diventare, con il tempo, la mia attività principale”.
Come sei entrata nell’associazione Likaa?
“Un’amica che fa parte del direttivo sapeva che avevo rapporti frequenti con il Marocco, e mi ha perciò presentato a Touria, che aveva fondato da poco l’associazione. Likaa è un’associazione rivolta ad agevolare l’incontro tra le due culture, italiana e marocchina. Non è facile vivere in un Paese che non è il tuo, magari senza la tua famiglia, e in un piccolo centro come Pinerolo, dove ci si conosce un po’ tutti e non passa inosservato neppure un diverso colore di capelli…”
Come hai iniziato a collaborare con l’Acat?
“Nell’Acat sono entrata per aiutare dei conoscenti che avevano problemi di alcolismo, e mi è servito molto, sul piano personale: mi ha dato il coraggio di parlare in pubblico e anche di buttarmi di più nelle cose. Perché questi gruppi non aiutano solo gli alcolisti, ma tutti. Diffondono quel sentimento di ‘comunità’ che aiuta ad affrontare le situazioni difficili. Dispiace che molti club abbiano chiuso: c’è sempre meno gente che partecipa, oppure persone che vengono qualche volta e poi spariscono. Purtroppo è un problema tuttora vissuto con un senso di vergogna: si cerca di nasconderlo invece di lavorarci per eliminarlo”.
Questo è triste. Sembra quasi vedere svanire quel sentimento di “comunità” di cui parliamo spesso. È il valore del volontariato. Lo stiamo perdendo?
“Certo. Una volta le persone avevano più voglia di mettersi in gioco, oggi è diventato più pesante, nessuno riesce più, per diversi motivi, a prendersi un impegno e rispettarlo. Avremmo bisogno di rinnovare i gruppi di volontari, ma è difficile”.
Il valore del volontariato è prezioso, per la nostra società, che si è avviata ormai da tempo sulla strada dell’individualità. Adoperarsi per il prossimo è un gesto che contribuisce a migliorare lo stare insieme, e condividere lo stesso territorio. Se dobbiamo vivere insieme, anche nel caso vi fossimo costretti, meglio farlo aiutandoci l’uno con l’altro, no?
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