“Noi eravamo la gente di cui non si parlava sui giornali. Vivevamo nei vuoti spazi bianchi ai margini dei fogli e questo ci dava più libertà. Vivevamo negli interstizi tra le storie altrui”. È un passo dell’opera forse più nota della scrittrice canadese Margaret Atwood, “Il racconto dell’ancella”.
Quella che seguirà è una storia molto pesante da raccontare, e vergognosa, soprattutto per gli uomini, e quindi sceglieremo un nome di fantasia, per questa donna. Sono vicende cui si fa fatica a credere, tanto che lei stessa si sente obbligata, ad un certo punto, a dirci: “È tutto vero”. È una storia che arriva dalla Romania.
Ma andiamo con ordine.
“Petra” era una diciannovenne curiosa della vita, desiderosa di esplorarla e di imparare: “Quando ci fu la rivoluzione ero piccola, ma a me sembra che ancora oggi la mentalità della gente sia in larga parte la stessa di allora, prima del 1989. Neruda diceva che ‘muore lentamente chi è schiavo delle abitudini’: la vita bisogna viverla, si deve rischiare”.
Abbandonare le proprie certezze?
“Non esistono certezze, nella vita. Dopo la caduta del comunismo, le amiche partite prima di me raccontavano la bella vita nei Paesi in cui erano andate a vivere, e mi sono convinta. È stato un colpo di follia: la mia famiglia non sapeva nulla, altrimenti non mi avrebbe lasciato andare. Mi sentivo in grado di prendere in mano la mia vita. La crisi economica era pesante, la mia era una famiglia media: mio padre impiegato statale, come mio nonno, mia madre assistente in una casa di riposo, e onestamente devo dire che non abbiamo mai patito la fame. Ma guardando le serie tv italiane e spagnole, quello che colpiva non era tanto il benessere, quanto i rapporti tra le persone. La curiosità era forte.”.
Qualcuno dice che si stava meglio, con il comunismo: tutti avevano una casa e cibo assicurato.
“Bisogna saper distinguere tra libertà e schiavitù: se vuoi rimanere schiavo, sarai schiavo per sempre. Per questo volevo conoscere cose nuove. Non so che dire, io mi sono buttata. È andata com’è andata, non rimpiango niente: questa è la vita”.
Petra si rivolge ad una agenzia, di quelle che procuravano lavoro all’estero tramite inserzioni sui giornali. Era sufficiente conoscere un po’ la lingua, al resto pensavano loro. Qui comincia il suo racconto, che ha diverse lacune, dovute in parte al pudore per certe situazioni, e in parte al fatto che tutto era vissuto con un’angoscia che non le permetteva di essere lucida e di sapere esattamente dove fosse e cosa succedesse di preciso intorno a lei.
Con quali mezzi è partita?
“Siamo partiti in un gruppo, ragazze eravamo in quattro o cinque, piene di sogni e di voglia di lavorare all’estero. Siamo andati in treno a Timisoara, dove però ci hanno fatto proseguire a piedi, per passare il confine. Ad un certo punto mi sono resa conto che le cose non andavano. Eravamo capitate nelle mani di un’agenzia fantasma, nel giro di trafficanti per il mercato della prostituzione”.
Dopo alcuni giorni di cammino, le ragazze sono trasportate fino in Grecia, dove vengono loro tolti i passaporti, e portate in un albergo con molte altre donne di diverse nazionalità, con la prospettiva di farle lavorare in un night club. “La cosa peggiore è che non potevi fidarti di nessuno, era davvero uno schifo, non ero partita dalla Romania per finire così, non lo accettavo. Chi si ribellava veniva picchiata a sangue, l’ho visto con i miei occhi, occorreva fare qualcosa subito”.
Petra chiede aiuto, viene accompagnata in una stazione di polizia. Riesce a raggiungere il Consolato e telefonare alla sua famiglia in Romania, raccontando loro soltanto una parte della verità: “Ho detto loro che ero all’estero, che mi trovavo in una situazione molto delicata, e che volevo tornare a casa”. Dopo le comprensibili discussioni (“Ma perché sei andata via? Cosa ti mancava?”), hanno richiesto l’aiuto dell’Interpol. “Dato che eravamo ancora senza documenti, ci hanno portate in un carcere di Salonicco, in attesa di identificazione. La burocrazia rumena è lenta, ma almeno in carcere la vita era tornata normale, a parte la sporcizia ovunque. Dopo qualche settimana ci hanno caricate tutte su un treno, diretto in Romania”.
Il dramma sembrava avviarsi verso la conclusione, invece qui comincia la parte peggiore. “Il treno viaggiava, finalmente, e ho pensato fosse finita. Invece no: ogni tanto, infatti, salivano uomini che prendevano alcune ragazze e le portavano via. Erano ancora trafficanti, forse macedoni; anche i poliziotti, evidentemente, erano d’accordo con loro. Solo su quel treno ci siamo rese conto che l’organizzazione criminale era davvero molto potente, che non avevamo speranze e che quel sistema era in realtà una deportazione: un po’ come quando caricavano gli ebrei sui vagoni, senza dire loro dove li avrebbero portati. Avevo stretto amicizia con un’altra ragazza, anche lei rumena, e ci siamo chieste cosa avremmo potuto fare per salvarci. L’unica soluzione era saltare giù dal treno, e così abbiamo fatto. Avevamo l’incoscienza dei vent’anni, dovevamo rischiare e affidarci alla provvidenza”.
Saltate dal treno, le due ragazze si trovano ancora invischiate nello sfruttamento: varcata la frontiera con la Macedonia, affrontano altre disavventure che le portano a dividersi, e Petra si ritrova così a vagare, sola, attraverso il confine albanese. “Era inverno, camminavo con l’unico scopo di cercare un riparo, e d’improvviso mi trovai davanti ad un asino. Cosa ci faceva un asino, mi chiedevo, così, da solo, in mezzo al nulla? Ma ormai non mi spaventava più nulla, io l’inferno l’avevo già vissuto”.
Seguendo quell’asino, Petra arriva nei pressi di una casa abitata da una famiglia di coltivatori di ulivi, che la accoglie. Il figlio vive di scambi commerciali con l’Italia, e la trattano bene. “Ho vissuto con loro un periodo sereno: li aiutavo in casa, loro mi insegnavano un po’ di albanese, io ricambiavo con qualche parola di rumeno. Ho chiesto di accompagnarmi in un consolato rumeno, per poter tornare a casa, ma il figlio mi convinse ad andare con lui in Italia, avevano dei parenti a Torino. Un giorno partimmo quindi per Brindisi, e poi in treno fino a Torino, a casa di uno zio che viveva con il nipote e la sua fidanzata. Mi sono subito messa alla ricerca di un lavoro”.
Finalmente era finita.
“No, per niente. Questa donna si vestiva bene, usciva al mattino e rientrava la sera, tutti i giorni così. Non mi dicevano dove andava, né cosa faceva, probabilmente volevano prima conquistare la mia fiducia. Un giorno mi dissero che non potevo più stare in quella casa e che avrei dovuto guadagnare qualcosa per pagarmi l’affitto. Ho capito che quella donna si prostituiva, e dissero che avrei dovuto farlo anch’io. Mi è crollato il mondo addosso: ma anche qui, mi chiedevo, in una città come Torino? Non è possibile che non riesca ad uscire da quest’incubo! Mi sono rifiutata. Ma stavolta è andata peggio, lui ha cominciato a picchiarmi violentemente, con tanta violenza che ho pensato di morire. Ho scoperto che i suoi scambi commerciali erano traffico di droga, di cui faceva largo uso, soprattutto quando decideva di prendermi a botte. Quell’asino che avevo visto era un carico che stava arrivando dalla Macedonia. E venne la sera in cui lui mi lasciò sulla strada, dicendomi che se non gli avessi portato a casa una certa cifra, mi avrebbe ammazzato. Ero disperata: quando la prima macchina si è fermata per farmi salire, sono scoppiata a piangere e ho chiesto aiuto a quell’uomo, e lui mi ha portato dai Carabinieri”.
È stata fortunata, non era scontato che quell’uomo l’avrebbe aiutata.
“Però non era ancora finita. Mi è stato proposto il rimpatrio, ma io avevo il terrore del rimpatrio, dopo quello che avevo passato, temevo che, come le altre volte, mi succedesse qualcosa durante il viaggio. E poi non volevo tornare a casa così, a mani vuote: sono andata via per cosa, mi dicevo, per avere tutti questi guai, e nient’altro? Non se ne parla, mi dissi. Così mi hanno affidato ad una casa famiglia, dove ho conosciuto delle ragazze che mi hanno aiutata, tra cui una rumena. Con suo marito aveva un banco al mercato e lavoravano tra Torino e Pinerolo. Ho iniziato a lavorare con loro, finché non mi hanno proposto di ospitarmi, a Pinerolo. La paura c’era sempre, ma stavolta è andata bene”.
Finalmente la scelta giusta.
“Questo mondo è uno schifo. Io mi chiedo, ma anche gli uomini che si fermano e vanno con queste donne: per me è inaccettabile! Mi dicono ‘Però te la sei cercata’: ma non è vero, perché tu non vuoi arrivare a questo, finisci dentro un meccanismo che non riesci a rompere, e devi fare qualcosa con il coraggio o con l’astuzia, per non farti fregare e cadere nelle grinfie di questi delinquenti, altrimenti non ne esci mai più”.
A Pinerolo ricomincia la vita normale?
“A Pinerolo ho conosciuto il padre di mia figlia. Quando mi propose di sposarlo, mi sembrava un po’ troppo presto, ma non vedevo l’ora di sistemarmi e di trovare un po’ di serenità. In quel periodo avevo davvero voglia di costruire finalmente una vita tranquilla”. Si sono sposati nel 2000. Nel 2012, quando sono arrivati alla separazione, le cose andavano male: “Non ce la facevo più, ho detto basta, e mia figlia ne ha pagato le conseguenze”.
Facciamo un passo indietro, allora. L’uomo che ha conosciuto a Pinerolo e poi sposato, non era perciò quello che sperava?
“Mi aveva fatto tante promesse, ma poi… A raccontarla così, questa storia, sembra roba da poco, e invece è stato tutto molto difficile, anche qui. Lui era dipendente dal gioco d’azzardo. Nel 2006 mi ero iscritta ad una agenzia di Pinerolo per lavorare nell’assistenza ospedaliera. Dovevo lavorare per mantenere anche lui, che non faceva che giocare: macchinette, lotto, totocalcio… Avevo aperto una partita IVA e facevo spesso le notti perché dovevo fatturare al di sopra di una certa cifra, per coprire i costi. L’agenzia aveva una convenzione con la Società Mutua Pinerolese, e ci mandava dove c’era bisogno. Stando sempre fuori casa, non sapevo bene come andassero le cose, però vedevo che mia figlia non stava bene, e che mio marito si giocava tutto; era un litigio continuo, su tutto, tra richieste di perdono, riappacificazioni e ricadute, e alla fine non ce l’ho più fatta. Sono andata in Romania e ho avviato le pratiche di divorzio”.
“Lui mi diceva: ‘Siamo una famiglia, non importa chi lavora’. A me importa, rispondevo, non si è mai visto che l’uomo resta a casa e la donna lavora giorno e notte, con una bambina piccola che comunque aveva bisogno della mamma: lo capivo quando l’agenzia mi chiamava e lei la sera mi pregava di non andare via. Le rispondevo che se non fossi andata, non avremmo avuto nulla da mangiare. Ero sfruttata due volte: da mio marito, che viveva e giocava sulle mie spalle, e dall’agenzia, che se avessi rifiutato avrebbe finito per non chiamarmi più”.
Ha lasciato Pinerolo nel 2012, chiudendo la partita IVA. Sua figlia aveva dodici anni, e le era ormai diventata ostile, dopo la sua fuga, condizionata dal padre. “In Romania ho avuto modo di riflettere a lungo; la mancanza di mia figlia pesava come un macigno, sulla mia coscienza. Ero spiazzata e delusa: pensavo di aver trovato un po’ di serenità, e non mi aspettavo invece di dover ancora lottare per dimostrare qualcosa alla mia famiglia, a mia figlia. Per lui è stato facile prendermi di mira, io ero fuggita, ancora una volta. Tornata in Italia, non siamo riusciti a trovare un accordo, anche perché lui era riuscito a condizionarla. Quando non si riesce ad accettare il fallimento e si addossano tutte le colpe all’altro, si finisce per usare i figli come arma di ricatto”.
Oggi Petra vive ancora in Italia, ma in una città del sud, con un uomo molto diverso da quelli che ha conosciuto fino ad ora, e con sua figlia, che finalmente ha capito le scelte che sua madre ha dovuto fare.
Il suo attuale compagno l’ha aiutata?
“Incontrarlo è stata l’unica cosa buona nella mia vita, a parte ovviamente mia figlia: mi ha restituito un po’ di serenità. Quando sono venuta a vivere qui è stata molto dura ricominciare da capo, il mio ex marito mi chiedeva sempre soldi. Per fortuna, mia figlia è riuscita ad aprire gli occhi e a capire come stavano davvero le cose. Dopo vari colloqui al telefono, è venuta a trovarmi e finalmente abbiamo potuto parlare e comprenderci. Aveva preso una brutta piega, non andava più a scuola; qui sono riuscita a inserirla di nuovo in un percorso scolastico normale, e ora va meglio”.
Ha un sogno?
“Sto bene, adesso. Avrei voluto studiare, laurearmi, una vita diversa. Le cose che ho vissuto ti restano dentro: un conto è sentirle raccontare, altro conto è viverle in prima persona. Ho trovato un equilibrio, ho un compagno che mi ha dato la serenità che mi è mancata nel matrimonio, perché quando due si sposano devono essere tranquilli ed avere un obiettivo; bisogna rispettarsi e tenersi ben stretti l’un l’altro, perché a distruggere siamo capaci tutti, il difficile è costruire. La felicità viene anche dal fatto che lui ha accettato mia figlia, e le fa da padre”.
Cosa pensa delle leggi italiane sull’immigrazione?
“Non saprei cosa dire; ritengo che occorra una rivoluzione nelle coscienze, bisognerebbe guardare meglio al valore delle singole persone, distinguere gli onesti e chi lavora bene, per integrarli nella società. Credo che il razzismo sia una questione di ignoranza: chi generalizza non conosce le persone, non distingue il bene dal male. A volte il male si nasconde nelle persone che sembrano più buone, e questo io l’ho vissuto sulla mia pelle”.
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