Parlando con altre associazioni ed operatori dell’assistenza sociale, è emerso che, soltanto sul territorio pinerolese, ci sono almeno trecento famiglie che hanno bisogno di aiuto: sono tante. Con la pandemia poi, la situazione è peggiorata e si è sommata alla cronica mancanza di lavoro. Oggi ne parliamo con Nadia Barillari, Presidente dell’Avass di Pinerolo (Associazione Volontari per l’Assistenza Socio Sanitaria), e suor Edvige, responsabile del Centro di Accoglienza Notturna, il dormitorio in cui vengono ospitati uomini con problemi abitativi, di occupazione, di dipendenze, ecc.
“L’Avass è stata fondata nel 1982. Il direttore della Caritas propose un servizio di volontariato che prevedesse l’accoglienza di alcuni pazienti in psichiatria, insieme ad alcuni senza fissa dimora. Eravamo in via Vescovado. C’era poi Cascina Nuova, che si occupava del recupero degli alcolisti, ma non riusciva ad ospitare tutti. Ecco come siamo nati noi: per dare un tetto a queste persone”.
Quali sono le tipologie di persone che vengono a chiedervi un sostegno?
“Sono persone che hanno perso il lavoro e cercano rifugio da noi, gli stessi che poi si rivolgono all’Emporio Solidale per risolvere il problema alimentare. Sono presenti anche persone inserite nel programma SPRAR, il sistema di protezione per i richiedenti asilo, che al termine del proprio percorso si ritrovano sulla strada, se non trovano lavoro. La maggioranza degli ospiti della struttura è però italiana, con un’età dai 40 ai 60 anni. Persone che avevano anche una buona posizione sociale, ma sono entrate in un meccanismo che li schiaccia: prima si perde il lavoro, poi la famiglia, infine la casa. Smarrito il proprio equilibrio esistenziale, ci si ritrova sulla strada. Quando si perde la propria rete di contatti familiari, si rimane senza sostegni. Ci sono anche dei diffidati, che non possono avvicinarsi alla propria casa, per esempio per episodi di violenza”.
Avete molti stranieri?
“Dipende dai periodi, ma la maggioranza è italiana. Negli anni Novanta c’erano gli albanesi. Arrivarono in molti, tanto che fummo costretti a stabilire turni. Col tempo, hanno trovato lavoro e messo su casa, e hanno fatto venire le famiglie. Ancora prima erano arrivati marocchini e tunisini. Molti erano laureati, e anche loro si sistemarono con le proprie famiglie, anche se avevano la tendenza a tornare in Marocco in estate e non tornare più: per questo si arrivò ad una certa diffidenza verso le persone provenienti da quella zona. Anche per i rumeni abbiamo avuto un periodo di forte affluenza. Ma loro non pensano di stabilirsi in Italia, in genere lavorano qui in Italia per costruirsi la casa in Romania”.
Cosa riuscite a dare alle persone che hanno perso tutto? Sono seguiti dai servizi sociali?
“Sì, collaboriamo con gli assistenti sociali. Il periodo di accoglienza di base è di due mesi; aumenta se la persona ha la possibilità di trovare lavoro, o se sta seguendo un percorso di recupero da qualche dipendenza. Noi operiamo su diversi piani. Abbiamo il dormitorio per l’accoglienza d’emergenza, poi ci sono strutture di secondo livello, in cui ospitiamo persone (in prevalenza donne) che hanno maggiore autonomia ma non ancora risorse sufficienti, e che sono quindi in regime di accompagnamento e sostegno economico. Poi abbiamo un terzo livello, in cui si chiede all’assistito un contributo per l’accoglienza, per un periodo di accompagnamento alla ricerca di una minima stabilità economica, rapportato alle possibilità dell’assistito. Serve per coprire il costo delle utenze, non è un canone di affitto, e dipende dal modello ISEE”.
Dall’ISEE però non risulta il lavoro sommerso…
“Purtroppo è un problema diffuso, non soltanto nel nostro ambito. Potrebbe esserci qualcuno che percepisce il reddito di cittadinanza, però lavora ‘in nero’. E non è neppure sempre colpa loro: molto spesso al datore di lavoro conviene farli lavorare senza contratto. Noi svolgiamo un lavoro di gruppo tra assistenti sociali, responsabili delle strutture, educatori: lo scopo è renderli autonomi, affinché non abbiano sempre bisogno di aiuto. Il problema è sempre il lavoro, solo così possono pensare a sistemarsi, trovare casa e magari anche famiglia. È anche nel nostro interesse, visto che la richiesta di accoglienza è sempre alta, e abbiamo bisogno che le persone arrivino a camminare da sole, per poter lasciare posto ai nuovi”
Tra voi e tutti gli altri operatori c’è quindi una collaborazione costante, per verificare i progressi delle condizioni degli interessati.
“Non è facile. Molti di loro non soltanto perdono lavoro, casa e famiglia, ma hanno anche una caduta psicologica, e scarse possibilità di trovare una collocazione nel mondo del lavoro. Persone che non sono in grado di gestire nulla, neppure quei pochi soldi di pensione che hanno, che vivono in un “limbo”, non sono cioè in grado di badare a se stesse, ma non hanno patologie sanitarie che diano diritto ad un sostegno. Ci sono persone che hanno limiti fisici, e questo succede per gli uomini come per le donne. Succede che queste persone rimangano per lungo tempo nelle strutture, perché non riescono a trovare una collocazione. Nel mondo del lavoro non è possibile assegnare un lavoro adeguato alle loro capacità: un datore di lavoro assume qualcuno perché faccia il lavoro, e renda economicamente. Qualcuno si dà all’accattonaggio, e poi spende tutto per bere. Ci vorrebbe una casa-famiglia per adulti, oppure una struttura dedicata alla ricerca di un lavoro per chi non ce la fa, ma ancora non ci siamo arrivati.
Ci vorrebbero dei fondi, per organizzare questo tipo di strutture.
“Sì, esatto, ma…” Abbiamo capito, è il solito vecchio discorso: la politica impiega risorse se vede un ritorno economico; queste persone non votano, perciò non vale la pena.
Parliamo delle donne che ospitate in Casa Betania.
“Arrivano a noi da vie diverse: donne che hanno subito maltrattamenti o violenze, e sono state cacciate dai mariti, o semplicemente che hanno perso la casa e non sanno dove andare. Accogliamo le donne, perché sulla strada sono un pochino più fragili, rischiano aggressioni. In questo caso il rischio più frequente è che queste persone non facciano nulla per migliorare la propria condizione, se si trovano bene; è un luogo ‘ovattato’ in cui i volontari ti risolvono qualunque problema. Compito dei volontari, perciò, è anche quello di stimolare queste persone a darsi da fare. Per queste donne è molto difficile tornare alla vita normale: hanno bisogno di stimoli continui a cercare un lavoro, ad andare al centro per l’impiego o a fare le visite mediche, a prendere i farmaci… Sono fragili, bisogna sostenerle nelle loro azioni quotidiane La collaborazione con i servizi sociali è fondamentale. A volte ci mandano persone con problemi di dipendenza, ma se dopo un po’ di tempo si accorgono che non fanno progressi, cercano un’altra struttura.”.
Quanti posti ci sono, a Casa Betania?
“Pochi, nove. Siamo ospitati in un’ala del fabbricato delle Suore Giuseppine e lo spazio è piccolo, di più non riusciamo ad accoglierne. Anche perché se fossero più numerose non riusciremmo a seguirle come si deve, sarebbe pesante anche per i pochi volontari. Diventerebbe un collegio. Qui ospitiamo anche donne con bambini, che ci vengono assegnate per tenerle al riparo da persone che non possono avvicinarsi, per provvedimento del Tribunale dei minori. Succede spesso che i figli siano usati come strumenti per farsi la guerra. La gestione dei bambini è un altro problema: se trova un lavoro, occorre che i servizi sociali trovino una struttura che ospiti i figli mentre la madre è assente, non possono lasciarli ai volontari. Per fortuna non abbiamo mai avuto molte madri insieme.”.
Tra le donne avete anche vittime di tratta?
“In quest’ambito collaboriamo con E.M.M.A. Onlus e Anlib, che accolgono in prevalenza donne che hanno subito violenza, ma da noi vengono donne con problemi diversi. La collaborazione coinvolge psicologi e avvocati, perché le nostre ospiti hanno spesso bisogno di sapere come muoversi a livello legale. Ma i nostri assistiti sono in genere di questa zona. Queste persone non hanno più una famiglia, oppure i parenti sono in difficoltà e non intendono aiutarle. Alcune situazioni si protraggono per mesi o anni, ed arriva il giorno in cui i familiari non ce la fanno più. Tipica situazione dei tossicodipendenti, le cui famiglie tendono ad allontanarli. Il superamento della fase del rifiuto è molto importante: se la famiglia la supera, riesce ad aiutarli a risollevarsi, ma c’è qualcosa di positivo anche nel caso in cui non la superi, perché li spinge a rendersi conto di dover reagire. Il tossicodipendente deve toccare il fondo, per comprendere la propria condizione”.
Le persone violente sono un problema, all’interno della struttura.
“Di solito cerchiamo di risolvere con il gruppo di coordinamento, nei casi gravi chiamiamo i Carabinieri. Ma come detto, i nostri ospiti sono in prevalenza della zona e sono persone abbastanza tranquille. Abbiamo avuto pochi episodi, nel dormitorio, e nulla di grave. A Casa Betania invece nulla di più che qualche discussione, subito moderata dai volontari”.
Oltre al CAN e a Casa Betania, svolgete altri servizi.
“Per il servizio di accompagnamento a Pinerolo abbiamo un mezzo, una Panda, mentre i volontari a Roletto, Airasca, San Secondo, e Cercenasco usano i mezzi del Comune. A Pinerolo e Cercenasco è ripreso in maniera alterna, dopo il periodo di chiusura per la pandemia, negli altri Comuni non si è mai fermato. È un servizio molto richiesto, perché per compiere il tragitto da e verso gli ospedali, le associazioni private hanno tariffe insostenibili, per le famiglie. Gli anziani con difficoltà di deambulazione hanno bisogno di mezzi attrezzati come le ambulanze o automezzi con la possibilità di caricare una sedia a rotelle. Abbiamo anche il servizio di domicilio, per le persone anziane ancora in grado di vivere da sole, alle quali i volontari portano la spesa o fanno solo un po’ di compagnia. Il servizio di assistenza in ospedale è per il momento ancora fermo e non ci sono previsioni di aperture, mentre nelle case di riposo potrebbe ricominciare, se autorizzassero i volontari vaccinati. Il gruppo di Roletto svolge un altro importante servizio: dato che il Comune non ha più il distretto sanitario, abbiamo due infermiere volontarie, che effettuano i prelievi di sangue e li portano all’Ospedale di Pinerolo. Altri volontari si occupano delle prenotazioni, altri ancora del successivo ritiro dei referti da consegnare ai pazienti. Un servizio proseguito anche durante il periodo di chiusura per la pandemia, anche a domicilio, per chi non è in grado di raggiungere il luogo di prelievo”.
Avete accennato ai costi: come si mantiene l’Avass?
“Abbiamo le convenzioni. L’accoglienza nel CAN e a Casa Betania è finanziata da Asl, CISS e Comunità Montana. Per gli altri servizi, abbiamo la convenzione con il Comune di Pinerolo e ancora con il CISS. Per il trasporto con la nostra auto, il Comune di Pinerolo chiede un contributo minimo, adeguato alla distanza da percorrere; gli altri Comuni, che utilizzano i propri mezzi, nulla. Gli enti rimborsano le spese vive: se sforiamo, la differenza è a nostro carico. Inoltre abbiamo le quote degli iscritti, il cinque per mille e qualcosa dell’otto per mille che arriva dalla Chiesa cattolica. La Diaconia Valdese ci finanzia solo alcuni progetti. Infine ci arriva qualche donazione da privati”.
Quanti siete? Quanti sono i volontari?
“Siamo circa duecento, divisi tra Airasca, il gruppo più numeroso, Roletto, Cercenasco, Pinerolo e San Secondo. Abbiamo anche due dipendenti, una in ufficio, e l’altra a Casa Betania”.
Suor Edvige osserva: “Il volontariato non deve comunque sostituire il servizio pubblico. Oggi mancano le motivazioni, per fare volontariato; anche per diventare responsabili e dirigerle, le associazioni. Facile immaginarne i motivi: queste cariche non danno notorietà, né tanto meno contributi economici. Non bisogna dimenticare che l’Avass non nacque per essere un’associazione (nel pinerolese c’era già molta gente che si occupava di sostenere queste persone), ma per affiancare ospedali e servizi sociali, e stimolare la Pubblica Amministrazione a migliorarli. Era appena uscita la legge 833 del 1978, che aveva istituito il Servizio Sanitario Nazionale perfezionando la formazione tecnica degli infermieri. Era però venuta un po’ meno la relazione con il malato. L’associazione nacque appunto per colmare il vuoto che si era formato sul piano del rapporto umano. Era lo stesso spirito della Avulss, creata direttamente dalla legge. A quel tempo c’era ancora il carcere e prestavamo assistenza anche ai detenuti. Inoltre abbiamo gestito un servizio di Telefono Amico, per un certo periodo”.
Riuscite a fare opera di sensibilizzazione nelle scuole?
“Avevamo presentato un bel progetto alla Regione Piemonte, indirizzato alle scuole e ai giovani, che purtroppo è stato approvato come progetto ma non ha ottenuto il finanziamento. Un progetto complesso, che riguardava le case di riposo, le case di accoglienza e le donne che non possono rientrare nell’assistenza del CISS, e che avrebbe coinvolto molte associazioni ed enti. Ora pensiamo ad un altro progetto in autonomia, rivolto agli studenti dell’istituto Porro, per far loro capire l’importanza del volontariato e lo “stare bene” quando ci si occupa della collettività”.
Il problema di oggi è perciò, come sempre, avvicinare i giovani allo spirito del volontariato.
“Il mondo è cambiato, il rapporto umano è cambiato. Una volta noi avevamo più coscienza di ciò che avveniva intorno a noi. Mi pare che oggi i giovani vivano un po’ troppo nel proprio guscio. La collaborazione tra le diverse associazioni è comunque vitale, nessuno deve lavorare soltanto nel proprio orticello. La nostra società ha estremo bisogno che tutte le forze si coordino e lavorino insieme, per arrivare a migliori obiettivi”.
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