“Oltre il confine”, il Salone del Libro di Torino 2017. Quattro chiacchiere con Giuseppe Culicchia

“Oltre il confine”, il Salone del Libro di Torino 2017. Quattro chiacchiere con Giuseppe Culicchia
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Mercoledì scorso, 22 febbraio, è stato svelato il tema del 30° Salone del Libro di Torino diretto da Nicola Lagioia: “Oltre il confine”, mai come ora d’attualità. Si parlerà infatti di frontiere, migranti, guerre, ma anche del cibo, con Slow Food, della Regione ospite, la Toscana, e molti reading, anzi “Letture ad alta voce”, come preferisce chiamarle il suo curatore Giuseppe Culicchia. Nutrito anche il programma dell’ormai tradizionale Salone Off, con ospiti prestigiosi. Lagioia ha posto in evidenza un fatto che nessuno degli organizzatori avrebbe osato sperare: almeno il 95% degli editori presenti lo scorso anno sarà presente in questa edizione, e non è improbabile ritenere che i partecipanti saranno più numerosi che nel 2016. Grande, quindi, il successo che si intravvede per un Salone che ha visto molte difficoltà, con il “gran rifiuto” di diversi grossi editori che hanno preferito Milano.

Qualche settimana fa abbiamo rivolto qualche domanda proprio ad uno dei più noti componenti della squadra degli organizzatori, lo scrittore torinese Giuseppe Culicchia.

 

Giuseppe Culicchia, classe 1965, è nato a Torino, figlio di un barbiere siciliano e di un’operaia piemontese, come lui stesso ama ricordare. È del 1994 il suo primo grande  successo “Tutti giù per terra”, romanzo dal quale il regista Davide Ferrario ha tratto il recente omonimo film, protagonista Valerio Mastandrea. Nel 2004 esce “Torino è casa mia”, altro successo editoriale. L’ultima fatica è “Mi sono perso in un luogo comune”, pubblicato da Einaudi lo scorso anno.

Ha tradotto Mark Twain, Francis Scott Fitzgerald e Bret Easton Ellis. Tiene reading letterari in molte città italiane e presso gli Istituti Italiani di Cultura di Berlino, Parigi e Londra. Collabora con La Stampa e altre testate, con il Circolo dei Lettori di Torino e da qualche anno con il Salone del Libro.

Qual è il tuo incarico nel Salone del Libro di Nicola Lagioia, e qual è quello degli altri componenti della squadra?

Non posso dire niente perché ne parleremo nella conferenza stampa del prossimo 22 febbraio.

Puoi dirci  almeno a che punto è il lavoro, che Salone sarà e cosa vi aspettate?

Il lavoro procede molto bene, le idee sono tante e molto innovative. Il Salone promette molto, molto bene. Probabilmente era anche necessario cambiare, a questo punto, dopo tanti anni in cui la manifestazione aveva avuto grande successo; la sua formula ha funzionato grazie ad Ernesto Ferrero e la sua capacità di mettere insieme tante cose. Forse, dopo quindici, sedici anni era bene rinnovare un po’ tutto, e questa è stata l’occasione giusta per farlo. Certi eventi ti danno sempre la possibilità di avere nuove idee.

Sappiamo che le adesioni sono parecchie, da parte degli editori.

Sì, siamo oltre i 200 editori, per adesso. E altri ne arriveranno.

Qual è, se c’è, il tema di quest’anno, su che argomenti punterete?

Ci sarà un tema, ma anche questo è troppo presto per dirlo. Forse ci conviene parlarci un po’ più avanti.

No, nessuno problema, avevo previsto di uscire dal tema del Salone del Libro. E’ vero, secondo te, che la gente non legge più e che il libro di carta sta morendo?

No, assolutamente. È vero che in Italia abbiamo sempre letto poco, siamo sempre stati indietro rispetto agli altri Paesi europei, quindi non è che oggi leggiamo tanto meno di un tempo. Il libro di carta non sparirà assolutamente, anzi. I numeri dell’elettronica sono fermi e non scorgo il rischio che si veda la fine del formato di carta, ecco.

Gli editori intervistati parlano di cifre intorno al 5% delle vendite totali.

Sì, esatto, qualcosa del genere.

Tullio De Mauro sosteneva che il 70% degli italiani ha difficoltà a comprendere pienamente un testo scritto. Tu hai la percezione di questo analfabetismo funzionale, e che cosa ne pensi? Vedi qualche rimedio per recuperarlo?

Mah, guarda, il rimedio può arrivare soltanto dalla famiglia e dalla scuola, nel momento in cui i bambini sono abituati a leggere sin dall’infanzia. Questo premio “Nati per leggere” è molto bello, importante, fatto dai pediatri italiani, che suggerisce di leggere ai bambini addirittura quando sono ancora nella pancia della mamma; leggere proprio le storie. Da una parte questo, appunto, la famiglia. Dall’altro, la scuola: sappiamo tutti che non è facile per la scuola avvicinare i ragazzi alla lettura, anzi a volte li allontana, perché li obbliga a letture a cui talvolta non sono ancora pronti. Però sono queste due istituzioni che devono fare il lavoro fondamentale, cioè quello, appunto di crescere nuove generazioni di lettori.

Qual è, in assoluto, il libro che hai consigliato più volentieri?

Probabilmente “I 49 racconti” di Hemingway, sono stati per me fondamentali, sono una lettura che consiglio davvero a tutti, perché sono uno dei grandissimi libri del Novecento.

A che punto è la cultura a Torino? Su quali torinesi può contare la cultura?

A Torino la cultura fa delle ottime cose, abbiamo appunto una serie di istituzioni, dal Museo del Cinema, all’Egizio, l’Accademia delle Scienze, il Salone del Libro, il Circolo dei Lettori, la GAM, il MAO, insomma una città molto viva dal punto di vista culturale. Tutte le volte che viene a trovarmi qualcuno da fuori rimane sorpreso dalla vivacità culturale della città.

Adesso che hai superato i 50 anni, hai un po’ di nostalgia o rimpianti di quando eri una giovane promessa?

No, assolutamente: l’età più bella è quella che hai, come diceva Gassman ne “Il sorpasso”. Nessun rimpianto.

Bella risposta. Senti, Torino è ancora “casa tua”, oppure ti va un po’ stretta? Cos’è per te la “torinesità”, che cosa significa essere torinesi?

Torino è una città che ti dà tantissimo, che offre una qualità della vita che altre città italiane non ti danno, purtroppo. Una città molto vivibile, che ti dà la possibilità di avere le cose che trovi nelle grandi città, e però di rimanere in una dimensione ancora… c’è vita di quartiere, insomma non ti senti un numero perso nel vuoto. Ed essere torinesi forse ha a che fare con queste cose, ha a che fare col fatto di avere un rapporto con la propria città che è un rapporto di amore e a volte anche di odio, perché proprio perché la ami la vorresti sempre più… vorresti che migliorasse, no? Dalla qualità dell’aria al fatto che vedi tante persone che purtroppo si cibano raccogliendo gli avanzi del mercato, frugando nei cassonetti dei rifiuti. Ma questo purtroppo non è una questione soltanto torinese, lo sappiamo, è tipico del nostro presente.

Torino soffre, da sempre, gli “scippi” di Milano, qual è il tuo punto di vista?

Dal mio punto di vista, la cosa bella è che Torino continua ad avere idee.

Si rialza sempre.

Sì, assolutamente.

Sono molti, troppi, i torinesi che non conoscono la storia della città. Lo studio della storia locale darebbe grande impulso al senso di appartenenza, all’orgoglio di essere parte di una comunità. Secondo te?

Mah, la storia locale… Sai, ormai non si conosce neanche più la storia nazionale, da quando c’è stata questa riforma della scuola in cui i bambini delle elementari studiano la preistoria e poi l’impero romano, nelle medie fanno il Rinascimento. Non so, hanno fatto in modo che la storia venisse studiata così, mano a mano, andando avanti. Un tempo si ripeteva, no? Ogni ciclo di studi, elementari, medie, superiori, la storia si riprendeva da capo, e questo era un bene, perché non so che cosa possa ricordarsi un ragazzino del liceo, di quello che ha studiato di storia alle elementari, o alle medie.

Cos’è per te l’intolleranza? Potresti, onestamente, definirti intollerante?

No, io parlo con tutti, fondamentalmente. Trovo che vada data a tutti la possibilità di esprimersi e di essere ascoltato; poi uno può essere d’accordo oppure no, però…

La dignità di espressione va accordata a tutti.

Ci mancherebbe, certo.

Ti abbiamo visto protagonista, insieme a Giorgio Li Calzi, di un emozionante reading de “Il giocatore” di Dostoevskij: qual è il tuo rapporto con il gioco d’azzardo?

Nessuno, per fortuna.

Neanche il lotto, la schedina ogni tanto, o la tombola natalizia?

No, non ho neanche mai scommesso sul calcio, figuriamoci. Niente, proprio zero.

Cosa ci vuole per sconfiggere i luoghi comuni?

Non si sconfiggono; ai luoghi comuni non si sfugge, nessuno riesce a sottrarsi ai luoghi comuni. Dobbiamo prenderli per quello che sono, cioè a volte una grandissima  risorsa, perché ci aiutano a venir fuori da situazioni magari difficili, altre volte una grande ipocrisia.

Prima scrittore molto apprezzato, (poi) adesso nello staff del Salone del Libro, quando ti vedremo a Sanremo?

Mai.

Se non avessi limiti di denaro e di tempo, cosa vorresti realizzare per Torino?

Vorrei ripulire l’aria.

Hai un sogno?

Certo, più di uno.

Come tutti.

Come tutti, certo.

Non vuoi parlarne?

Non porta bene.

Ultima domanda: ce la farà ad entrare in Europa, questo Toro?

No. quest’anno ce lo dovremo scordare, vedremo se il prossimo riusciremo nell’impresa. Dipende un po’ dalla politica che intenderà adottare la società nel mercato estivo, a questo punto. Se rimane Belotti, se invece parte, se si comprano questi due centrocampisti di cui abbiam bisogno, se la difesa viene risistemata anziché smontata… Son tutte cose che dipendono dalla società.

Insomma, sei pessimista.

No, sono realista.

Culicchia con Giorgio Li Calzi, durante il reading de “Il giocatore” di Dostoevskij, al Circolo dei Lettori di Torino.

 

 

 

 

 

 

 

 

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