“Perché sono qui? Sono qui perché mi ci ha mandata mia madre, Germana. Da quando studiavo medicina (perché ho scelto medicina?), da allora, dicevo che volevo andare in Africa, anche da prima, veramente, dalle Medie, da quando ho letto l’autobiografia di Albert Schweitzer. Dannazione, perché ho scelto quel libro nella biblioteca della scuola? […] Germana era speciale, intelligente, buona, con la sua empatia artistica “a palla”, per tutti. Gli artisti, e lei artista: un mondo che dovrebbe governare il mondo, ma non glielo lascerebbero mai fare. […] E ci sono andata mamma, con te accanto. Lo sai che le emozioni forti mi stordiscono, come un quadro davvero universale e bello, un paesaggio, un colpo di vento. Fa male mamma, fa male il bello, fa male tutto questo dolore. Sono triste mamma, immensamente triste, perché non c’è niente di giusto e qui c’è poco, pochissimo, e noi abbiamo troppo, il nostro Occidente ha portato spesso miseria qui e da qui ha portato via troppo. Dobbiamo tentare di restituire qualcosa. E allora torniamo indietro, mamma, raccontiamo le storie che abbiamo incontrato qui”.
Queste sono le parole con cui Eva Mesturino, medico di Medicina Generale, ha deciso di aprire il catalogo che narra la missione in Benin dell’ottobre del 2014. Ci sembrava giusto aprire con le stesse parole questo breve racconto dell’attività di questi “patulé”, (i “bianchi”, come li chiamano gli abitanti del posto), queste magnifiche persone che “sacrificano il proprio egoismo”, per usare ancora le sue parole, per migliorare la vita di altre persone. Eva è uno stato d’animo, non un semplice medico: non si limita a raccontare, ma pennella personaggi e luoghi con una proprietà di linguaggio non comune. Lei proviene da una famiglia che ha fondato la propria vita sul teatro, ma non solo. Come ci ha detto lei stessa, per Germana Erba era molto importante formare persone che con il teatro riuscissero a stabilire un’empatia con gli altri. E le storie cui Eva accenna sono davvero tante, in questo Paese affacciato sul Golfo di Guinea.
Il Benin è nel cuore di quella che fino all’Ottocento fu la “Costa degli Schiavi”. Ha ottenuto l’indipendenza dalla Francia nel 1960, con il nome di Dahomey fino al 1975, quando assunse l’attuale denominazione. Gli schiavisti erano in realtà i sovrani del Regno: razziavano i villaggi per vendere gli uomini ai bianchi, che li portavano oltreoceano. Esistono città, come Ganvié, fondate da coloro che erano riusciti a sfuggire alle razzie. Il corpo militare delle Amazzoni del Dahomey era nato anche per questo motivo, gli uomini venivano deportati come schiavi e le donne si sono ritrovate guerriere per difendere il Paese dai conquistatori francesi. Ancora oggi, in alcune località, viene celebrata la Regina delle Amazzoni. Uno dei principali porti da cui salpavano le navi dirette in America era Ouidah, oggi considerata anche la “capitale” del woodoo, o vodun, la religione animista inquietante per noi occidentali, ma che ha invece una valenza positiva per la popolazione locale.
Nonostante gli anni trascorsi, il passato coloniale pesa ancora molto sull’economia del Paese, tuttora molto povero; le difficoltà economiche derivano anche dalla dipendenza da un unico prodotto, il cotone, alla cui produzione e lavorazione è legato circa un quinto della popolazione. Il tasso di alfabetizzazione è fermo al 38.4%. Le truppe del Benin fanno parte della forza multinazionale contro Boko Haram, ma il Paese è finora riuscito a rimanere immune da attacchi terroristi.
N’Dali, in cui si trova l’Ospedale Saint Padre Pio, è una cittadina di 80.000 abitanti del dipartimento di Borgou, nord-ovest del Benin, a circa 60 km dal capoluogo Parakou. È qui che l’equipe di Cute-Project svolge la sua attività. “L’anima” del progetto, fondatore e Presidente, è Daniele Bollero, che ha iniziato nel 2012 nel Congo. “La missione in Benin è partita su invito del Gruppo Missionario di Merano, che aveva già costruito l’ospedale con il Vescovo, che in questa remota zona del Benin era stufo, mi ha detto, di veder morire la gente per strada. Il Gruppo era già presente da tempo, a sostegno della popolazione con la costruzione di pozzi. Ha realizzato cose importanti, come questo bell’ospedale. Da parte nostra, questo è il quinto anno che andiamo, con l’obiettivo di renderlo un centro permanente per la cura delle ustioni o di malformazioni. Il centro è intitolato alla memoria di Germana Erba, grande formatrice, a cui ci ispiriamo tutti noi”.
Quale interesse aveva, Germana, per l’attività del Centro?
“Beh, io e Daniele siamo stati compagni di università, ci conosciamo da sempre, e quando ha pensato a quest’attività è andato subito a chiedere consigli a lei, che ne fu subito entusiasta e sarebbe stata lieta di darle il proprio nome. Anche il centro permanente avrà il suo nome, perché ha sempre sostenuto le nostre idee con cognizione di causa, e non lo dico solo perché sono sua figlia: aveva un bel rapporto con Daniele e credeva molto nella formazione in ambito medico, così come in quella dei ballerini e degli attori, con la stessa passione, perché la formazione è sempre stata il suo obiettivo. Ha creato il liceo per dare una formazione che desse agli artisti la possibilità di avere più di una chance. I ragazzi che si diplomano al Liceo Germana Erba non sono ‘relegati’ nell’ambito artistico, ma posseggono competenze che permettono loro di fare anche, per esempio, medicina, dopo il liceo. Secondo lei l’artista formato, e sono d’accordo, può comprendere e trasmettere molto meglio la storia del teatro, della musica o dell’arte che ha studiato. Inoltre, un attore ha la capacità di stabilire un’empatia con le persone con cui ha a che fare. È un talento che può essere innato, ma va comunque coltivato, non basta sapersi muovere o saper cantare, come pensano oggi molti giovani”.
La missione Germana Erba si occupa della ricostruzione in seguito ad ustioni o eventi traumatici, come le aggressioni con l’acido, o a malformazioni, quali la labiopalatoschisi. “Le ragioni di queste aggressioni, premesso che niente può giustificare un atto così crudele, vanno dalla passionalità, dalla gelosia di un uomo verso una donna, ai motivi di invidia sul lavoro. Sia in Uganda, sia nel Benin, abbiamo riscontrato un’inquietante frequenza di queste aggressioni: è una volontà distruttiva molto forte, poiché condanna non alla morte, ma ad una vita di sofferenza, di esclusione sociale, di difficoltà fisiche e psichiche non da poco, ad una costante tortura. Un atto più che violento, di una cattiveria spaventosa. Spero che chi lo compie non si renda pienamente conto delle conseguenze”.
La cultura degli uomini verso le donne è fondata sul possesso, nei luoghi in cui operate?
“Il Benin e l’Uganda sono posti molto diversi. Conosco meno l’Uganda, in Benin ho trovato una grande armonia, una bella parità, convivono più etnie e religioni diverse. Il Vescovo ed il direttore sanitario dell’Ospedale mi raccontano che il Paese è povero, che nessuno viene a mettere armi in mano alla gente, per contendersi le risorse naturali, ed è un bene, questo li rende estremamente pacifici e tolleranti, vivono in grande armonia anche sul lavoro nell’Ospedale, in cui si nota una bella parità tra uomini e donne. In Uganda, dove c’è un maggiore sviluppo economico, la donna mi è sembrata essere più in secondo piano rispetto all’uomo. Anche se nell’ospedale le donne, infermiere e medici, fanno un gran bel lavoro”.
Insomma, un po’ come qui da noi: le pari opportunità rimangono una sorta di miraggio.
(Ride) “Esatto, in teoria la parità c’è, ma risulta difficile, quando hai dei figli: quello rimane il grande divario. Tornando ai pazienti che ricorrono alle nostre cure, anche gli incidenti stradali sono frequenti: la rete stradale è molto sconnessa, i mezzi sono vetusti perché mancano la manutenzione e i pezzi di ricambio, e anche il carburante. Le persone si spostano a piedi con le taniche di benzina e il rischio incendi è alto. Anche la gestione dei rifiuti presenta pericoli: li bruciano all’aperto, magari con i bambini vicino, che dormono, mangiano e a volte cadono dentro il fuoco; cucinano dentro le case, spesso capanne, con il fuoco dentro casa. Tutti rischi di ustione di cui dobbiamo tenere conto”.
“Ad esempio Juliet Mbabazi, che incontriamo tutti gli anni in Uganda, è stata sfregiata con l’acido, un’aggressione dovuta alle sue ottime qualità lavorative, che le avevano attirato l’invidia dei colleghi. L’abbiamo fotografata tutti gli anni, in una narrazione dei progressi nella complicata ricostruzione del suo volto, fino alla foto che le ha scattato Monica Carocci quest’anno, in cui Juliet osserva le sue foto, fatte da Gigi Piana e poi da Claudio Cravero nei cataloghi degli anni precedenti. Tra l’altro, quest’anno le hanno fatto la foto per il passaporto, per la prima volta.” Oggi Juliet porta il suo sostegno alle frequenti vittime dell’acido, vittime, come dicevamo, di quella cattiveria. Molto importante risulta quindi il suo lavoro di raccontare questa sofferenza, la fatica di chi vive le difficoltà quotidiane con questo tipo di ferite, Queste le parole di Juliet, riportate sul catalogo della spedizione a Fort Portal del 2015: “Un’aggressione con l’acido è innanzitutto molto dolorosa fisicamente, e non ha colpito solo me, ma anche la mia famiglia e i miei amici. Mia figlia ha avuto grosse difficoltà a riconoscermi come sua madre, e solo ora che sta crescendo prova ad abituarsi. Non sono più libera di andare nei luoghi pubblici per gli sguardi degli altri, non tanto per la repulsione che posso provocare, ma so che gli altri pensano che sia ridotta così perché ho guardato un uomo non mio, perché l’aggressione con l’acido avviene anche per questi motivi… Ma a me non importa, se posso essere di esempio, purché non succeda ad altri. Una cosa gravissima è poi l’ingiustizia che ho subito da parte della polizia corrotta e della compagnia menefreghista per cui lavoravo. La vita da ustionata con acido è inoltre molto cara, per via delle cure farmacologiche per il dolore e le sue complicanze”.
“In Benin c’è Yves, (FOTO) ragazzo aggredito con l’acido e rimasto cieco; una storia d’amore, il suo rivale si era innamorato di sua moglie e ha pensato bene di risolverla in questo modo, per cui lui ha perso anche sua moglie; qui era con sua madre. Tra l’altro una persona dolcissima, con un ottimo francese e buona cultura, si sentiva che aveva una storia alle spalle. Noi abbiamo cercato di aiutarlo, non solo nel volto, che esteticamente era il punto peggiore, ma anche il resto del corpo era sofferente, il braccio era incollato, è stato un intervento importante. L’abbiamo sentito di nuovo, ora sta meglio”.
“Gli interventi di labiopalatoschisi sono invece una cosa diversa: è importante che i bambini riescano a mangiare, a respirare, a evitare infezioni polmonari, pensiamo a tutti i rischi di aspirazione: non si tratta soltanto di un problema estetico, ma di funzionalità di tutto l’apparato. La durata dell’operazione varia a seconda delle parti interessate, se ha preso solo il labbro oppure se c’è anche il palato o la parte posteriore; va tutto ricucito e ricostruito, in anestesia totale o locale. Abbiamo pochi strumenti per l’anestesia generale, non sempre i respiratori sono adeguati, anche se noi cerchiamo sempre di mettere tutto a posto. Quindi i nostri anestesisti cercano il più possibile di fare l’operazione in sedazione, cioè non l’anestesia profonda, ma quella più leggera, che lascia anche poi meno reliquati, in modo che il bambino possa riprendere più in fretta a mangiare, perché sono piccoli, hanno fame, dobbiamo riuscire di attaccarli alla tetta il più in fretta possibile. Per cui il chirurgo deve essere bravissimo, superveloce, l’anestesia leggera, così il bambino riprende presto la sua vita. Il lavoro dell’anestesista è importante. Per il secondo anno in Benin è venuto con noi Mauro Navarra, primario al Martini, abbiamo avuto Bartolomeo Operti, grande esperienza di ustionati al CTO, Luca Scavino delle Molinette, che ha seguito le ultime missioni in Uganda, Giorgio Forlani del CTO, altro grandissimo anestesista. Penso che l’anestesista sia il medico che ha maggiori competenze, deve avere notevoli capacità di reazione. Forse è il medico più ‘medico’ di tutti, perché ogni operazione può presentare complicanze differenti. Secondo me è quello che ha maggiori conoscenze in ambito medico e farmacologico”.
Uno dei luoghi comuni sull’Africa è che ci siano molte malattie.
“Verissimo, soprattutto malaria, lo tocchiamo con mano sia in Uganda che nel Benin. I bambini arrivano da noi ormai gravissimi, fortemente anemici, difficile aiutarli: molti ci muoiono, di malaria. Questo perché mancano i lavori di bonifica, manca la prevenzione. Per carità, è vero che noi operiamo in zone rurali, disagiate, noi andiamo a lavorare dove c’è più bisogno, non nella capitale, dove stanno già bene e la situazione è completamente diversa, con maggior possibilità di accesso alle cure. Ma è comunque impressionante, oggi, veder morire di malaria. Sì, ci sono malattie, c’è malnutrizione, c’è la difficoltà di accedere alle cure. In Benin la sanità è a pagamento: in ospedale ti danno un letto, se c’è, ma le medicine devi comprarle tu: inoltre le risorse sono limitate e le condizioni igieniche difficili. Certo, si cerca di aiutare chi ne ha bisogno, ad esempio l’Ospedale ha una cassa per i pazienti disagiati, ma i farmaci bisogna pagarli e non è facile arrivare fino in ospedale, e spesso quando ci si arriva è già troppo tardi per fare qualcosa”.
I medicinali sono gestiti dallo Stato o dalle multinazionali?
“Non saprei. Le compagnie multinazionali ci sono sempre, a monte, si dice che a volte vendano farmaci non perfettamente funzionanti o provenienti da chissà dove. Non ci sono prove certe, noi lavoriamo all’interno di due realtà molto stabili per le loro funzionalità: i farmaci che utilizziamo per le anestesie e per il resto funzionano più che bene, e molti altri li portiamo noi stessi”. Samanta Marocco aggiunge che i medicinali che portano dall’Italia sono decisamente più efficaci, in Benin. Gli abitanti del luogo non sono abituati ai nostri farmaci, i dosaggi che utilizzano sono molto diversi rispetto a quelli che di solito applicano da noi, ed è quindi sufficiente utilizzare i farmaci generici: “Paracetamolo a fiumi” dice sorridendo. “Anche la loro reazione ad antibiotici che da noi hanno un uso talmente diffuso da arrivare all’abuso, permette di trattare i pazienti anche con dosi minime per ottenere una reazione adeguata“.
“Diciamo“, continua Eva, “che questi Paesi fanno del loro meglio, con le risorse che hanno, per tenere in piedi un sistema sanitario dignitoso; cercano di coinvolgere le missioni umanitarie in molti ambiti, come quello oculistico od odontoiatrico. Nel Benin, per esempio, il Gruppo Missionario di Merano continua a sostenere l’ospedale, il lavoro del personale e il costo dei materiali, e penso che non sia realistico ipotizzare una completa autonomia della struttura, da questo punto di vista, almeno allo stato attuale delle cose. Ce lo auguriamo nel futuro, magari insieme ad una crescita economica del Paese, magari con la creazione di una sanità realmente pubblica. Ma le problematiche contingenti sono tantissime”.
Il “Vescovo” di cui parla Eva è Mons. Martin Adjou, che dirige con orgoglio l’Ospedale Saint Padre Pio. Valentina, del Gruppo Missionario di Merano, racconta che la struttura sorge a qualche chilometro dal centro abitato, e la prima volta che vi si è recata, la strada per raggiungerlo era sterrata e piena di grosse buche. l’ha fatto presente alla Ministra della Sanità, che ha poi provveduto a farla asfaltare.
Ogni Paese dell’Africa è composto da diverse etnie, anche differenti fra loro. Differenze che a volte arrivano alla guerra vera e propria.
“Nel Benin ci sono 40 etnie“, continua Eva, “parlano addirittura lingue diverse. Ricordo che in Uganda ho curato una signora che non aveva mai visto i bianchi, era molto spaventata da noi. A volte fatico a farmi comprendere o a comprendere ciò che mi dicono. Il Benin è francofono ed io parlo un discreto francese. Ma con etnie diverse e lingue diverse, a volte mi succede di dover cercare qualcuno che parli il dialetto che mi occorre e che conosca anche un altro dialetto, una seconda persona che parli il dialetto che parla la prima persona e che parli un po’ di francese. Se lui non parla francese devo cercarne una terza; insomma, a volte, per capire come si sente una persona, se ha delle allergie, se ha preso medicine e così via, devo portarmi dietro quattro persone, per riuscire ad avere un dialogo: la cosa avrà pure un suo fascino, ma allontana un po’ il medico dal paziente. È vero che loro si aiutano molto con i gesti, però parlare con estranei è delicato. Può capitare che una ragazza debba dirmi qualcosa di privato: già è difficile, in queste condizioni, poi… Sono cose a cui non si pensa immediatamente, quando si deve organizzare una missione di questo tipo, ma alla fine ‘sul campo’ ti destreggi. Noi Italiani ce la caviamo bene con la gestualità, ma spesso i gesti hanno significati diversi: a volte fai dei gesti e loro ti guardano con aria smarrita, cercando di capire cosa vuoi dire”.
Vale la pena di riportare le parole che Eva Mesturino ha scritto sul catalogo Uganda 2017, riassumono bene il lavoro di queste persone: “Com’è l’Uganda? È cavallette, pioggia torrenziale, acido buttato sulla faccia e bambini bellissimi, è convivere con una percentuale altissima di sieropositività, è bello in modo quasi violento, con animali incredibilmente vicini… è piante giganti piene di voci, è tramonto che diventa nostalgia, si scioglie piano nel sangue come un farmaco che toglie il dolore, ma solo per un po’”.
Da quante persone è formato il team, per ogni missione? Una decina, mi pare.
“Sì, circa una decina, dipende. In Uganda eravamo nove, compreso l’artista, cioè il fotografo, ma ci alterniamo. La priorità è fornire alla missione sempre la stessa qualità di prestazioni. Ogni volta ci sono almeno
due chirurghi plastici, poi ci siamo io o Marta Cravino, medico internista, due infermieri strumentisti, per la sala operatoria, e infermieri di reparto, la fisioterapista e il chirurgo ugandese, Edris. Io sono medico di medicina generale, accolgo i pazienti in arrivo, li visito, cerco di medicarli e di sistemarli nei vari reparti. Li seguiamo anche nel percorso post-operatorio, soprattutto i bambini, che hanno bisogno di maggiore attenzione. Le nostre missioni durano circa due settimane, in cui operiamo dieci ore al giorno”.
Parlavi dell’artista.
“Questi fotografi ci accompagnano nelle missioni per realizzare un progetto. Nella missione Uganda 2015 è venuto Claudio Cravero, bravissimo. Il suo progetto era far vedere un’Africa in crescita, far conoscere artisti, fotografi, religiosi, medici e infermieri che operano nella missione e che raccontano la loro esperienza e quello che stanno facendo. Ci piaceva rendere un’Africa in crescita, diversa da quello che ci si immagina. E quest’anno abbiamo realizzato un catalogo molto particolare con Monica Carocci. Nel 2016 abbiamo avuto con noi Gigi Piana, anche lui ha realizzato un bel catalogo. Quello sul Benin l’abbiamo invece realizzato con Carlo Orsi, grandissimo fotografo, che ha raccontato la storia delle persone, dei pazienti, dei bimbi che abbiamo incontrato, con tutto il loro vissuto, le loro ustioni e le ragioni che li hanno portati da noi, alla missione”.
“E poi vengono con noi due fisioterapiste sudafricane meravigliose che Daniele ha incontrato nella sua attività di volontariato, Evanthia Pavli e Roxanne Wentzel, che realizzano le guaine elasto-compressive da mettere sulle ustioni per evitare che si ipertrofizzino. Queste guaine vanno fatte su misura e almeno due per persona, perché devono essere indossate sempre. Inoltre realizzano gli splint post-operatori per mantenere gli arti nella posizione studiata con il chirurgo, per evitare che la pelle appena applicata si richiuda ed assuma una forma che vanifica l’intervento. Sono fatti di uno speciale materiale plastico e fissati con le bende. Evanthia e Roxanne girano tutta l’Africa e raccolgono fondi con iniziative di ogni genere, dal running alla cucina: si inventano di tutto per riuscire a coprire i costi delle loro missioni e soprattutto di questo speciale materiale plastico che, come si può immaginare, è molto costoso”.
“Inoltre, in Benin abbiamo il chirurgo Gerard Agboton, che sta ultimando la specializzazione a Parigi e che si stabilirà, speriamo, a N’dali come responsabile del Centro per la Pelle, con l’esperienza maturata e la formazione che ha ricevuto in questi anni trascorsi con noi. Ecco, il nostro sogno è stabilizzare nel ‘nostro’ ospedale tutto il personale infermieristico e medico che in questi anni abbiamo seguito. Per il resto, c’è una suora che sta imparando a costruire questi tessuti con la fisioterapista, c’è la pediatra che sta lavorando con me per seguire i pazienti nei reparti, ci sono gli strumentisti di sala che stanno crescendo, per seguire gli interventi, gli infermieri che continuano a fare le medicazioni…”
È lo stesso Gerard Agboton, di passaggio a Torino dopo il suo periodo parigino per la specializzazione, che raccoglie con orgoglio il testimone di questa staffetta solidale: “Sono onorato di aver ricevuto il bisturi dai medici di Cute Project. Confermo che la mia presenza a N’Dali durerà molto tempo e penso di poter fare buone cose, grazie alle conoscenze apprese con loro“.
Il personale dell’ospedale sta quindi crescendo di numero e di qualità.
“Esatto, con una formazione costante. Chi lavora con noi ha molta voglia di imparare, sono persone estremamente intelligenti e pronte, bravi nel loro lavoro. Spesso ci chiedono se in Africa ci siano medici e infermieri in grado di operare e medicare, e chi li segue quando noi non ci siamo: la nostra risposta è sì, certo che ci sono, certo che sono bravi, e certo però che devono imparare. Proprio come noi, nessuno nasce in grado di fare un intervento di plastica ricostruttiva! Bisogna studiare, e molto. Ma se non hai l’opportunità di farlo, non puoi impararlo, se non hai la strumentazione necessaria, non puoi impararlo. Per concludere, non è vero, mai, che queste persone non abbiano la volontà di imparare, è vero che non ne hanno gli strumenti; ma sono bravi, molto bravi e hanno una volontà molto forte. C’è un po’ l’idea che non vogliano fare molto, che preferiscano stare lì a non far nulla, e ovviamente non è così“.
Anche Daniele Bollero insiste sulla formazione, riprendendo da Gerard la metafora del proprio strumento di lavoro: “Abbiamo lasciato il bisturi in mano a Gerard, è vero. Durante i primi anni di esperienza, collaboravo con una Onlus che ogni anno si recava in un Paese diverso, un po’ in tutto il mondo. Lodevole, per carità, ma la cosa mi seccava un po’, perché sentivo che in ogni luogo lasciavamo qualcosa di irrisolto, andando lì come ‘salvatori’ per curare e poi andarcene. In Benin, come in Uganda, noi torniamo e ritroviamo degli amici, ma la cosa più importante è che ogni volta troviamo sempre più gente che lavora dove noi abbiamo seminato: dagli infermieri ai volontari, mi accorgo che sono comunità in crescita. Aggiungerei una cosa che può sembrare strana: per noi non è per niente facile, tutto questo. Uno dei compiti più impegnativi per me è mantenere l’armonia tra persone che spesso si vedono ed operano insieme per la prima volta. Ognuno di noi ha il proprio carattere, e discussioni e malintesi sono all’ordine del giorno, come in ogni gruppo. Inoltre voglio ricordare che tutti siamo volontari, e questo porta anche dei limiti da non superare, quando si lavora insieme. Insomma, gli equilibri sono delicati, ma i risultati ci sono e siamo soddisfatti“.
Ecco perché è importante la formazione“, racconta ancora Eva. “Se noi andiamo in Uganda e operiamo duecento persone, va benissimo per loro, ma rimane una goccia nel mare del nulla. Se noi invece operiamo duecento persone e intanto insegniamo a venti medici a fare la stessa cosa, a venti infermieri a medicare gli ustionati come si deve, in modo che non si creino quelle cicatrici retraenti che sono le stesse su cui noi poi andiamo ad operare per sbrigliare una mano, un braccio, una gamba per non rendere disabile una persona in un contesto già estremamente disagiato, le cose cambiano, questo è importante. Il nostro obiettivo è che in un gruppo di cinquanta ustionati, solo un paio conservino cicatrici retraenti, e gli altri guariscano, rendendo permanente e costante questa formazione. È sempre più difficile, anche per problemi di fondi economici”.
Ecco, siamo al punto dolente, la raccolta dei finanziamenti per il sostegno delle missioni. Ho letto però i costi delle spedizioni pubblicati sui cataloghi e mi sembrano contenuti, nonostante tutto.
“Dipende. In Benin, il prezioso appoggio del Gruppo Missionario di Merano risolve il problema di vitto e alloggio. Dormiamo all’interno dell’ospedale e consumiamo i pasti preparati dalle suore del Saint Padre Pio. La parte importante dei costi della missione sono i farmaci, il materiale sanitario, il trasporto dei materiali, perché ci portiamo tutto dall’Italia; molte cose le lasciamo poi agli operatori sanitari locali, ai quali insegniamo ad utilizzarle. Ci sono macchinari complessi e costosi che tornano in Italia, ad esempio il dermatomo che usiamo per prendere la cute da un punto sano e trapiantarla nel punto della lesione, ma in ambito chirurgico tante cose sono monouso. Per ogni missione pubblichiamo i costi sostenuti: per l’Uganda, per esempio, quest’anno abbiamo speso 63.000 euro, più che nel Benin, perché mancando il sostegno del Gruppo Missionario abbiamo il problema di mangiare e dormire. Ci sono bandi appositi per il finanziamento da parte di alcune aziende, mentre per l’Uganda è fondamentale il sostegno della Chiesa Valdese con l’otto per mille. Altra fonte di sostegno sono gli sposi che, invece di fare bomboniere e liste nozze, realizzano un foglietto informativo dell’attività di Cute Project e ci sostengono in questo modo. Oppure i genitori per una cresima”.
Torniamo al discorso sulla formazione locale, molto importante.
“Per il terzo anno abbiamo assegnato una borsa di studio ad Edris Kalanzi, per venire ad aggiornarsi in Italia”. Edris si è laureato a Pisa ed
è stato il primo chirurgo plastico dell’Uganda. Sposato dal 2007, nel 2008 ha conosciuto a Kampala Daniele Bollera, che “non molla mai, sta sul pezzo, con la forza di un giocatore di rugby fuso insieme a un raffinato scacchista”, come lo descrive Eva, ed è rimasto colpito dalla sua passione e serietà professionale, ne è nata una grande amicizia. Daniele lo ha invitato ad unirsi alla missione in Benin e da allora fa parte del team stabilmente. “È specializzato nella labiopalatoschisi, in Uganda è una patologia molto diffusa. Ogni anno viene qui e per circa un mese collabora con i nostri chirurghi del CTO e del Maria Vittoria. Viaggia anche nei Paesi vicini all’Uganda e quando lavora in zone disagiate lo fa gratuitamente, come volontario. Il suo sogno è creare una formazione per chirurghi plastici a Kampala, che oggi non esiste, come non esiste in Benin. Come dicevo prima, è proprio lo scopo di Cute Project: oggi lo facciamo in Benin e in Uganda, siamo stati anche in Congo e siamo aperti a nuove collaborazioni, siamo cioè alla ricerca di posti che ci garantiscano la continuità formativa. Non è che debbano per forza andare in Europa o in America per imparare, l’idea è di formarli ‘a casa loro’, come si dice oggi. Parliamo però di formazione vera, bisogna seguirli, occorre spendere del tempo, e tornare, tornare. Oggi poi esistono WhatsApp, Messenger, restiamo in contatto, così riusciamo a seguire anche quello che succede dopo. In Uganda c’è un’infermiera bravissima, Proxy, che sta seguendo un progetto di
medicazione per gli ustionati, un gran bel lavoro che abbiamo voluto dedicare al dott. Bruno Debenedetti, uno dei fondatori di Cute, che è mancato di recente. Proxy è una donna eccezionale, una forza della natura, grintosa, sempre sorridente, ha un’energia pazzesca e sempre una soluzione per tutto, e tre figli piccoli che si porta dietro perfino in sala operatoria. Un’usanza ugandese, anzi dell’etnia locale Batoro, assegna ai nuovi nati il ‘Pet name’, possiamo definirlo il ‘nome dell’anima’. Qualcosa di vero ci deve essere, visto che il nome di Proxy, così piena di energia, è Akiki, che significa “straniera”, in effetti è una donna molto speciale, sembra un po’ un’aliena, che si distacca dal genere umano con tutti i suoi difetti: è praticamente una donna perfetta”.
“Nel nostro gruppo non ci sono solo medici e infermieri, c’è di tutto. Ci sono anche operatori di viaggio, insegnanti, linguisti, gente che fa tutt’altro e che offre le sue conoscenze e competenze; che sia un notaio, un avvocato o un operatore ecologico, ognuno ha il suo ruolo e la sua importanza ed ognuno lavora gratis per l’associazione, che ha bisogno di tutto. L’avvocato può offrirci il suo aiuto nei rapporti con le altre associazioni, o con le Asl, per fortuna fino ad oggi non abbiamo avuto problemi particolari, ma può anche solo scrivere un testo o realizzare un evento. Per dire, anche io faccio il medico, ma poi mi metto a scrivere”.
Dal 2014 c’è anche una collaborazione con il Sermig.
“Sì, abbiamo un laboratorio gratuito, si chiama ‘La plastica è per tutti’. La bravissima dott.ssa Mondo, epidemiologa che fa parte della Commissione del Volontariato all’Ordine dei Medici di Torino, mi ha indirizzata alla dott.ssa Maria Pia Bronzino, responsabile degli ambulatori del Sermig, che fanno un lavoro straordinario sotto tutti i punti di vista. Maria Pia ha quel qualcosa in più che cattura, coinvolge e trascina nella sua visione dei problemi. Una di quelle persone, come
dicevamo prima degli attori, che hanno la capacità di empatia con gli altri. La collaborazione dei chirurghi plastici e infermieri volontari è coordinata da Samanta Marocco, infermiera strumentista che fa parte del team del Benin. Come vedi, ognuno dei componenti dell’equipe delle missioni ha un incarico, come lei, come Loredana, che è responsabile del magazzino, per il quale una figura di riferimento è veramente necessaria. In base a turni gestiti da Samanta, un chirurgo ed un infermiere visitano i pazienti, in genere migranti che hanno difficoltà ad accedere alle cure del servizio sanitario per vari motivi. Persone che hanno subito traumi che hanno lasciato cicatrici retraenti o malformazioni, e che chiedono sovente una valutazione utile per riuscire a rimanere in Italia; spesso sono vittime di violenza e dobbiamo valutare se ferite e lesioni sono compatibili con il loro vissuto, cioè se possono essere prese in considerazione nella documentazione da raccogliere ai fini della richiesta di asilo. Sono quindi valutazioni importanti, utili a farli rientrare nella legalità, a reinserirsi nel Servizio Sanitario e ricevere assistenza. Se devono essere operati, il chirurgo plastico cerca di inserirli, ovviamente per vie legali, nell’ambito dell’ospedale per cui lui lavora, perché quello del Sermig è solo un ambulatorio, non possono essere operati lì. Al Sermig ci sono ambulatori gratuiti ben organizzati per moltissime specialità, i nostri volontari visitano con turni di una volta al mese, con prenotazioni gestite dal Sermig. I pazienti vengono quindi visitati, seguiti, controllati nel tempo dai volontari del Cute Project, ma anche molti altri che non possono venire in missione per mille motivi, ma che offrono volentieri la propria attività gratuita per il Sermig, da diversi anni, da ben prima di noi”.
Progetto Cuty Firephant per le scuole
“Quest’anno, nelle scuole piemontesi abbiamo realizzato un progetto con una mascotte di nome ‘Cuty Firephant’, uno strumento di prevenzione per i bimbi, contro le ustioni: nelle scuole raccontiamo le situazioni potenzialmente pericolose e come evitarle. È molto divertente, per loro ma anche per noi. Il responsabile del progetto è il Dr. Ezio Gangemi, vicepresidente di Cute Project. Quest’anno in Piemonte abbiamo fatto 60 laboratori che hanno coinvolto 1.500 bimbi dai 4 ai 7 anni, grazie ai volontari ma anche al Lion’s club Rivarolo Canavese Occidentale, il cui contributo ci ha permesso di coprire i costi per il materiale, dai libretti da colorare alle magliette, necessario per partire. Il Canavese è stato l’inizio, poi siamo andati anche a Torino e in altri luoghi, oggi con il sostegno finanziario della Suzuki Italia. Lo scopo con i bambini è ovviamente la prevenzione, insegnare loro a non farsi male. Abbiamo creato il personaggio di Cuty Firephant, protagonista in un libriccino da colorare che abbiamo realizzato in cinque lingue e che portiamo nelle scuole, ma anche in Africa, per i bimbi dell’ospedale. L’elefantino presenta immagini di situazioni pericolose, di bambini che giocano col fuoco o toccano sostanze corrosive, con le scritte che esortano a non toccare le prese di corrente, a stare attenti alle cose calde, o a scappare sempre dalle fiamme. Loro lo colorano, poi noi chiediamo se qualcuna tra queste situazioni sia successa anche a loro, e lì si apre un mondo. Ci raccontano cosa è successo a loro, o all’amichetto, e lo scopo è proprio quello di rivivere insieme situazioni, dal motorino caldo o al petardo raccolto per strada, per far capire loro i pericoli che corrono per se stessi, ma anche per i bambini che stanno intorno a loro. Questo è molto bello, loro lo recepiscono in maniera forte, si sentono ‘ambasciatori’ di questo elefantino, avvertono i compagni di stare attenti che gli altri non si facciano male, soprattutto da parte di bambini che hanno fratellini, sorelline o cuginetti più piccoli, e che si sentono responsabilizzati. Poi tornano a colorare il libro, ognuno colora l’immagine della situazione che più l’ha colpito, e per concludere ci vestiamo tutti da chirurgo, con cuffietta e mascherina”.
Considerazione finale: meno male che ci sono persone che hanno voglia di spendere il proprio tempo per gli altri. “Sì, soprattutto (ride) i chirurghi plastici, di cui si parla spesso male, poverini! La chirurgia plastica nasce per essere ricostruttiva, poi, ovvio, esiste anche l’estetica, ognuno è libero di fare ciò che vuole”.
A parte questa considerazione, possiamo concludere con le parole che Eva Mesturino dedica a sua madre Germana Erba, sul sito web dell’Associazione: “Germana, non sei più fisicamente con noi, ma ti sei unita al tutto, a quel tutto che forse in vita sappiamo avvicinare solo con l’arte, la preghiera, il sentimento e il sacrificio del nostro egoismo. Eppure ti sento e ti sentiamo vicina. Sarà come hai chiesto: andremo là con te, medici e infermieri, a portare la tua forza e il tuo talento d’amore al servizio di chi aspetta una risposta alla sofferenza. Germana, artista vera, formatrice e organizzatrice eccezionale, ‘donna di spettacolo’. Germana che hai offerto il tuo lavoro e coinvolto i tuoi amatissimi allievi e insegnanti, attori, registi per sostenere Cute-Project e per divulgarne le finalità, e che ora sarai con noi in Africa!”
Se volete dare il vostro contributo allo splendido lavoro di questi supereroi, trovate tutte le indicazioni sul loro sito: http://www.cute-project.org/
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