Basta con la violenza

Basta con la violenza

Abbiamo incontrato la Presidente di EMMA Onlus – Centri Antiviolenza, Anna Maria Zucca, nei locali di Via Passalacqua, a Torino. Il tema della violenza sulle donne è purtroppo sempre attuale.

La violenza è una spirale; la donna si trova ad un certo punto a subire violenza senza rendersene conto, tutto avviene in modo graduale, secondo uno schema fisso. Due persone si incontrano e danno vita ad una storia affettiva, cercando di piacere all’altro. Lui comincia a far notare le cose che lo infastidiscono: il modo di vestire, il giro di amicizie, i parenti, il lavoro… Per evitare discussioni e rafforzare il legame, col passare del tempo ti adegui e inizi a perdere i tuoi punti di riferimento: amici, famiglia, quella rete sociale che ti permetteva un confronto e una crescita personale. Inizia la “svalorizzazione”, la progressiva perdita di valore agli occhi di lui, che comincia a pretendere, e tu finisci per ragionare come lui, a pensare di non valere nulla. Si arriva quindi a quel logorio in cui tu cerchi di evitare la lite, che lui invece cerca perché deve sfogarsi. Dalla violenza verbale si passa a quella fisica, e talvolta, come sappiamo, la cosa finisce male, molto male”. Questa è una sintesi, le cose sono in realtà molto più complicate.

Perciò abbiamo scelto una spirale, come logo dell’associazione. L’acronimo è nato scegliendo non la prima lettera di ogni parola, ma quella che ci piaceva di più, all’interno di essa. La ‘E’ è quella di ‘libertà’: il centro antiviolenza è il primo spazio di libertà che la donna trova. La ‘M’ viene da ‘autodeterminazione’, la libertà porta ad una maggiore capacità di autodeterminarsi e quindi di scegliere l’emancipazione, rappresentata nel logo dalla seconda ‘M’. L’ultima lettera è la naturale conclusione del percorso: la ‘A’ di ‘Autonomia’. Significato non immediato, ma quando lo spieghiamo, rimane, e per noi è molto importante”.

I Centri “Donne Futuro” di Torino e “Svolta Donna” di Pinerolo, si sono uniti dando vita a E.M.M.A. Onlus, ma mantenendo ciascuno il proprio nome. A Pinerolo quindi il centro si chiama ancora “Svolta Donna”, ma non ha personalità giuridica.

Cosa ha portato la fusione tra le due realtà, torinese e pinerolese?

Svolta Donna aveva sei sportelli, collocati presso i presidi sanitari di Pinerolo, Susa, Rivoli, Avigliana, Carmagnola e Orbassano, configurati come Asl TO3 e Ospedale San Luigi e coordinati da un numero verde. Il primo impegno è stato creare un unico Centro antiviolenza Svolta Donna, in Stradale Fenestrelle, che garantisce alla donna gli stessi servizi in qualunque posto si rivolga: primo ascolto, sostegno psicologico, psicoterapeutico, legale, servizi che avevamo già a Torino. Abbiamo anche cambiato il numero verde, che prima era solo un ascolto telefonico, e solo in alcuni orari, ed ora è attivo 24h. Collaboriamo anche con Telefono Rosa, anche se siamo entità che operano ognuna per conto proprio”.

Cosa ha invece guadagnato Torino, con la fusione?

Donne Futuro è nata nel 1998; quando non eravamo ancora unite aveva un modello di percorso già strutturato, a cui Svolta Donna ha aderito volentieri. Noi abbiamo guadagnato la certezza che in questo ampio territorio possiamo contare su sportelli efficienti, cui la donna può rivolgersi con fiducia: le donne dei paesi piccoli tendono ad andare in un luogo in cui non possano essere riconosciute. Abbiamo svolto un grande lavoro di formazione, le donne sanno di poter avere un valido aiuto. A Torino abbiamo tre sportelli: uno all’Università, al Campus Einaudi, un secondo a Nichelino, e un altro alla Coop di via Livorno. Le strutture di accoglienza sono ovviamente segrete; attualmente tra emergenze, case rifugio e strutture di secondo livello siamo in grado di ospitare contemporaneamente tra le ottanta e le cento persone, anche in relazione alle diverse età”.

Come sono gestiti gli spazi di accoglienza e le case rifugio?

A Pinerolo conoscono il territorio e proseguono la collaborazione con le case rifugio, come per esempio Casa Betania. Il percorso che proponiamo si concretizza con la casa rifugio, ma è preceduto da un lungo lavoro. Difficilmente una donna viene per caso a chiederci aiuto: ci arriva con il passaparola, o tramite un’amica che già ci conosce. Ma più sovente arriva perché finisce in ospedale, o segnalata dai servizi sociali, o indirizzata dalla Polizia. È quasi sempre una scelta forzata, dettata dall’emergenza di una situazione non più sostenibile per la donna. Qui lei sa che noi ci siamo e che possiamo aiutarla, ma la lasciamo libera di scegliere senza farle alcuna pressione. La percentuale di donne che decide di continuare il percorso è molto alta, più del 90%. L’altro dieci per cento è rappresentato da donne che vogliono provare a farcela da sole, oppure si trasferiscono da parenti lontani. Oppure che non sono ancora pronte e scelgono di tornare con il proprio compagno. Ma sanno che noi siamo pronte ad aiutarle”.

Avete la percezione delle donne che ce l’hanno fatta, che hanno trovato una strada insieme al compagno, fuori dalla violenza?

Dobbiamo distinguere tra violenza e conflitto. Se c’è violenza, è molto difficile che questo avvenga se lui non fa un percorso adeguato. Il problema è culturale: l’uomo ha un modello sociale che lo abitua a pensare che la persona cui vuole bene sia di sua proprietà. Un modello culturale sbagliato, per cui è normale che la donna stia a casa, che guadagni di meno, perché non è indispensabile che lavori”.

Ma qual è la percentuale di maschi che si comporta in maniera possessiva? Su quale percentuale di maschi possiamo contare, per un futuro migliore?

Non c’è una risposta. L’unico strumento che abbiamo sono i dati Istat: una donna su tre, almeno una volta nella sua vita, ha subito un episodio di violenza. Rapporto confermato anche a livello mondiale ed europeo, da ricerche dell’ONU. Non significa che un terzo degli uomini sia violento: lo stesso uomo può esserlo in più occasioni, con donne diverse. Molto preoccupanti i casi di femminicidi compiuti da adolescenti o giovanissimi, c’è da chiedersi cosa ci sia dietro la possessività di un ragazzino che uccide una donna: non possiamo parlare di “malattia”, siamo di fronte a comportamenti dettati da un modello culturale e sociale. Se io pago di meno una donna, legittimo una società che ritiene il lavoro femminile non necessario. Noi preferiamo lavorare per dare loro un’autonomia economica, che significa essere sullo stesso piano dell’uomo. Se ci limitassimo ad ospitarle, rimarrebbero fragili e senza sostegno, con il rischio che poi si affidino al primo che arriva e ricadano nel problema. Autonomia significa avere un futuro, da qui il nome ‘Donne Futuro’.

Le nostre operatrici conoscono a fondo le dinamiche culturali della violenza, e quando ascoltano stabiliscono un rapporto di fiducia, da donna a donna, che non è quello con un’istituzione, o con un medico. Le fanno capire che la storia che racconta non è colpa sua, ma di una società che permette tutto questo e che lei si è trovata a fare una scelta forzata. Il nostro lavoro è ‘spacchettare’ la violenza individuale, trovarne le motivazioni e i segnali da indicare alla donna in modo che non ci ricada, e trovare insieme a lei un modo per tornare ad una relazione di pari livello. Questo lavoro l’uomo non lo fa, prima di tutto perché c’è la negazione, il rifiuto di riconoscere che ci sia qualcosa che non va”.

Ma ci sono uomini che lavorano con voi o, comunque, che collaborano per la buona riuscita della vostra attività?

Noi collaboriamo con alcune associazioni i cui operatori lavorano con uomini che usano la violenza, per esempio ‘Il cerchio degli uomini’. Se la domanda intende se abbiamo del personale maschile, la risposta è no. Un po’ perché è da sempre la nostra metodologia, e una metodologia confermata sia dalla Convenzione di Istanbul, sia dalla normativa italiana, nazionale e regionale. Ma soprattutto perché la violenza, lo ripeto, ha un’origine culturale: significa che sono molte, le donne che sanno di cosa stiamo parlando, e che l’ascolto che una donna può offrire ad una donna che subisce violenza è sicuramente più empatico, significa sapere che chi ascolta capisce e sa di cosa stia parlando, elemento che si aggiunge alla professionalità e alla conoscenza delle dinamiche”.

La collaborazione con gli uomini non potrebbe però essere utile ad entrambi, uomo e donna, per costruire una relazione migliore?

Potrebbe, forse, ma in realtà non è così. Stiamo parlando di una relazione in cui si esercita un potere, in una società strutturata al maschile. L’errore di molti operatori è quello di confondere la violenza con il conflitto. Nel conflitto i due soggetti la pensano semplicemente in modo diverso: è quindi possibile portare un uomo ad aiutare una donna, perché il confronto è un valore, arricchisce, se non sconfino nella violenza, non c’è una valenza culturale. La componente culturale è presente quando pensiamo che una donna debba essere sottomessa, che debba essere una proprietà dell’uomo. Se una donna subisce una violenza, all’interno di una relazione affettiva, c’è un abuso di potere da parte del maschio, che mira al riconoscimento di quella proprietà. Nonostante la società abbia fatto passi da gigante, c’è ancora molto da fare.

Il periodo di lockdown ha visto un crollo delle richieste: le donne si sono ritrovate in smart working, insieme ai figli che non andavano a scuola e al compagno di cui subivano le violenze. Con la fine del lockdown le donne sono tornate, ma i nuovi ingressi sono diminuiti e sono aumentati i femminicidi. Tra chi ha perso il lavoro durante la pandemia, le donne sono una percentuale altissima, è un dato spaventoso. Significa che io, uomo, ti faccio lavorare perché sono bravo, ma quando il lavoro scarseggia appartiene a me, tu te ne stai a casa perché ci sono i bambini da guardare. Purtroppo, questa ideologia patriarcale c’è ancora. Mi spiace dirlo, mi piacerebbe smettere di parlare di questi temi, e invece bisogna ancora farlo. La realtà è questa, e la pandemia l’ha messa in grande evidenza”.

Chiudiamo ricordando le parole pronunciate da Silvia Lorenzino, del Centro Antiviolenza Svolta Donna di Pinerolo, sulla piazza di Luserna: “Dobbiamo smetterla di chiederci cosa hanno fatto le donne che subiscono violenza per meritarsi questo. Fatti come questo hanno una matrice culturale. Quando parliamo di Carmen De Giorgi e delle altre donne uccise, non dobbiamo chiederci ‘perché’ le hanno uccise, perché noi lo sappiamo: Carmen non c’è più perché qualcuno non ha accettato un rifiuto, perché viviamo ancora in una società in cui le donne devono essere di qualcuno, e se non vogliono essere di nessuno rischiano la vita”.

                                                                       Marco Gambella

(Articolo pubblicato sul periodico “Il nuovo Monviso” del 29 ottobre 2021)

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